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 2016  febbraio 07 Domenica calendario

Se Jeb Bush invoca uno psichiatra per Donald Trump

In genere, quando uno deve chiedere aiuto alla mamma significa che ha toccato il fondo. Nel caso di Jeb Bush la mamma è Barbara, una delle first lady più popolari negli Stati Uniti, che ha portato in New Hampshire a fare campagna per lui, ma il discorso non cambia: il suo sogno presidenziale, presentato come inevitabile incoronazione, è già arrivato a quella che chiameremmo l’ultima spiaggia, se non fosse un cliché vietato. In Iowa ha speso 14 milioni di dollari, pagandone in pratica 2.800 per ogni voto ottenuto: se non farà meglio martedì in New Hampshire, sostenere la sua corsa diventerà quasi illogico.
Incontriamo Jeb alla McKelvie Intermediate School di Bedford, dove è venuto per un «town hall», un incontro in cui risponde alle domande degli elettori, per cercare di dimostrare che è «l’unico adulto nella stanza». Comincia attaccando Donald Trump, che con i suoi insulti personali lo ha demolito: «Avrebbe bisogno di terapia psichiatrica». Si commuove quando una ragazza, che ha perso il cugino per una overdose di eroina, gli chiede cosa farebbe per affrontare l’emergenza della tossicodipendenza: «Come sapete è un tema che mi tocca da vicino, perché mia figlia Noelle era finita fuori controllo. Per fortuna ora è pulita da dieci anni. Bisogna puntare sulla prevenzione; poi le cure, tenendo presente che spesso all’uso della droga sono associati problemi mentali; e mettere in galera chi vende questo veleno». Dice di essere l’unico con una strategia per combattere il terrorismo, dove «servono truppe e alleati sunniti per battere l’Isis», rilanciare l’economia favorendo le piccole imprese, ridurre il debito degli studenti, promuovere la ricerca per trovare nuove fonti di energia pulite, garantire l’assistenza sanitaria ai veterani, e a chi è già malato e viene escluso delle assicurazioni. Lo avviciniamo alla fine del discorso, e tocca due temi che ci riguardano da vicino. Primo, arginare Mosca: «Nel rapporto con l’Europa serve più coerenza. Per fortuna stiamo aumentando le truppe in Polonia e nei paesi orientali, ma bisogna fare di più, perché la Russia ormai è una minaccia». Secondo, la Libia: «Abbiamo sbagliato ad abbattere Gheddafi. Ora gli europei dovrebbero guidare la stabilizzazione, ma per riuscirci serve un governo unitario con cui lavorare».
Tutte idee sensate, che però finora non hanno avuto alcuna attrattiva sugli elettori. «Jeb – ci spiega uno stretto collaboratore storico della famiglia Bush – è un introverso: sapevamo dal principio che avrebbe avuto difficoltà con la politica degli insulti e gli slogan. Però è il candidato più preparato, e se riuscirà a farsi ascoltare scavalcherà tutti». Se vuole sopravvivere, bisogna cominciare qui in New Hampshire: «Deve arrivare secondo o terzo, ma se non ce la fa non si ritirerà. Noi donatori abbiamo raccolto 120 milioni di dollari, circa dieci in più di Hillary, e quindi possiamo sostenere la campagna almeno fino al super martedì del primo marzo. Le nostre vere speranze di rivincita sono puntate sulla South Carolina, che vota il 20 febbraio, dove suo fratello George aveva battuto McCain. Il senatore locale, Lindsey Graham, lo appoggia, e noi ci investiremo un sacco di risorse». Se non dovesse funzionare, «Jeb dovrà valutare. Non possiamo candidare estremisti come Trump e Cruz. Non amiamo neppure Rubio, ma a quel punto Marco diventerebbe la scelta obbligata per l’establishment».