la Repubblica, 7 febbraio 2016
La rivoluzione di Calder
Come sempre accade con Alexander Calder, anche in occasione di questa mostra alla Tate Modern – la più grande mai tenuta nel regno britannico, aperta fino al 3 aprile – il visitatore prova un immediato senso di gioia, di allegria. Immediato davvero, perché da subito lo attendono alcune tra le opere più celebrate dello scultore americano: quelle figure in fil di ferro (pesci, elefanti, leopardi, tennisti, ritratti di amici artisti, acrobati) che rappresentano la prima delle tante magie architettate da questo originalissimo artista, artefice della “scultura cinetica”.
Creare volumi facendo leva sui vuoti, grazie a poche linee essenziali che disegnano nell’aria forme ben definite eppure sospese, riconoscibili eppure cangianti: questa è la prima sfida vinta da Calder, la prima di tante rivoluzioni nel mondo statico della scultura. Basti vedere Medusa, una testa in fil di ferro del 1931 che muovendosi a ogni minimo refolo di vento, modifica di continuo la propria natura – effetto che si raddoppia grazie al felice gioco di ombre cinesi che si crea sulla parete alle sue spalle. Stiamo entrando così nel regno del mobile, parola-chiave del vocabolario calderiano suggerita dall’amico Marcel Duchamp, dove il secondo, possibile significato della parola francese (movente, motivo) verrà progressivamente risucchiato dal primo (mobile, mutevole, instabile), come bene intuì Jean Paul Sartre: «I suoi mobiles non significano niente, non rinviano a nient’altro che a se stessi (…) Sono invenzioni liriche, combinazioni tecniche, quasi matematiche e allo stesso tempo il simbolo sensibile della Natura, di quella grande, elusiva Natura che sperpera il suo polline e produce bruscamente il volo di mille farfalle, e di cui non si sa se sia la cieca catena di cause ed effetti o lo sviluppo timido, incessante, confuso e turbato di un’Idea».
Ma tutto questo lo si intende appieno nelle sale conclusive della mostra. Prima c’è ancora un lungo itinerario da compiere, in parallelo con alcuni decisivi passaggi biografici dell’artista. Nato nel 1898 in un sobborgo di Philadelphia, da una famiglia di artisti, Alexander, pur mostrando da subito il suo inarrivabile talento di bricoleur, decide di compiere studi regolari. E si laurea in ingegneria nel 1919, finendo per fare i mestieri più disparati: oltre che l’ingegnere, il contabile, l’assicu- ratore, il fuochista su una nave. Infine, dopo essersi iscritto nel 1923 all’Art Students League di New York, comincia a pubblicare disegni umoristici su The National Police Gazette. E proprio per quel giornale segue l’attività di due circhi: il Ringling Brothers e il Barnum & Bailey. Assieme alle prime sculture in fil di ferro e al trasferimento a Parigi (1926), l’innamoramento di Calder per il circo è il terzo, decisivo fattore di quella fase. Nasce il “Cirque Calder”, un vero e proprio spettacolo che l’artista americano porta in numerose gallerie ottenendo un incredibile successo. Da un baule che Alexander si porta appresso al di qua e al di là dell’oceano, saltano fuori una minuscola pista, altrettanto minuscoli acrobati, animali e i necessari attrezzi di scena. Il tutto approntato con materiali di recupero (sughero, legno, gomma, stoffa, pelle, fili metallici) e azionato poi dall’ideatore. Una sorta di “performance” ante litteram, la prima tra le mille ideate da Calder con un innato gusto fanciullesco per il gioco.
Vedendo fotografie e filmati, suscita tenerezza questo gigante a terra che traffica con i suoi fantasmagorici pupazzetti e carrettini. Aveva ragione l’amico Fernand Léger quando scriveva: «Impossibile trovare un contrasto più grande di quello che c’è tra Calder, un uomo che pesa novanta chili, e le sue creazioni mobili, delicate, trasparenti (…) Sorridente e curioso fluttua nell’aria come se facesse parte della natura stessa». E così in effetti sarà, come bene indicano le ultime, bellissime sale della mostra. Ma prima devono consumarsi altri passaggi della sua evoluzione artistica. Tra i tanti spettatori che vanno a vedere il “Cirque Calder” c’è anche Pietr Mondrian, e la successiva visita di Calder allo studio del pittore olandese determinerà una svolta convinta verso l’astrattismo e una nuova combinazione teatrale tra pittura e scultura, ennesimo contrappunto di una ininterrotta sperimentazione, che porterà Calder – tra l’altro – a inedite ricerche di frontiera tra scultura, balletto e musica. Sempre sospinto da quell’idea della “forma plastica in movimento”, che troverà il suo culmine in una sorta di astrattismo naturale.
Siamo giusto alla conclusione del tragitto quando incontriamo Vertical Foliage, Gamma, Snow Flurry, Black Widow: opere che lasciano senza fiato. Ora il gioco si è fatto pura metafisica, l’allegria fanciullesca ha virato verso un ipnotico nirvana. E il tempo che passa, senza lasciare un briciolo di polvere sulla sua arte, continua a dargli ragione.