la Repubblica, 7 febbraio 2016
Essere Jihadi John. Così il ragazzo londinese è passato da giocare a calcio sotto casa a tagliare teste per conto dell’Isis
Tratto da Da Jihadi John: The Making of A Terrorist Oneworld
C’è un momento surreale all’inizio dell’ormai famigerato video dell’esecuzione del giornalista James Foley. Il boia incappucciato perde l’equilibrio e inciampa, a lato della sua vittima. Un passo falso, l’unico, che maschera l’orrore di ciò che sta per avvenire. Poi Jihadi John si riprende ed è quanto mai chiaro che non siamo chiamati a guardare una messa in scena ma un vero atto di barbarie.
Nei primi mesi del 2014 il gruppo terrorista che oggi si fa chiamare Stato Islamico iniziò a collezionare giornalisti e cooperanti occidentali, rapiti o comprati da jihadisti e criminali in Siria. Tra questi James Foley, americano, catturato al confine tra Siria e Turchia.
Improvvisa, la mostruosa decapitazione di Foley sconvolse l’opinione pubblica. I giorni, le settimane, i mesi seguenti, furono all’insegna della ricerca ossessiva di quel boia incappucciato. Il 26 febbraio dell’anno scorso ricevetti una telefonata da una mia fonte. Mi comunicava che la Bbc stava per rivelare l’identità di Jihadi John: Mohammed Emwazi, era questo il suo vero nome, ventisei anni, musulmano, originario di West London. Era un nome che non mi diceva nulla. Ma due giorni dopo un gruppo in difesa dei diritti umani pubblicò una serie di email, tutte indirizzate a Emwazi. Una di quelle email l’avevo scritta io. Diceva: “È stato un piacere vederti ieri, Mohammed…”. Dalla sorpresa rimasi paralizzato. Mi affannai a cercare nella memoria l’immagine dell’uomo che avevo incontrato e intervistato ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a visualizzarla. Era come se i fotogrammi del Jihadi John incappucciato avessero cancellato le altre immagini del Mohammed Emwazi che comunque da qualche parte dovevo pur avere immagazzinato. Mi ci vollero un po’ di giorni per riuscire a ricostruire.
I perseguitati dall’M15
Quando io l’ho conosciuto Mohammed era un ragazzo difficile ma non credo capace di uccidere, non ancora. Sotto molti punti di vista non era diverso da altri giovani musulmani che si erano rivolti a me (in quanto giornalista specializzato in questioni relative alle sicurezza) per denunciare l’atteggiamento persecutorio che polizia e M15 (i servizi segreti inglesi) avevano nei loro confronti. Emwazi era convinto di essere un cittadino innocente, vittima di ingiustificati soprusi.Mi raccontò anche i suoi problemi d’amore. Voleva assolutamente che la sua storia diventasse di dominio pubblico. Prima che i servizi segreti gli rovinassero la vita. Aveva venduto da poco il suo portatile su internet ed era certo che a comprarlo fossero stati i Servizi. Era talmente sotto pressione che spesso – così mi disse – si sentiva «un morto che cammina». In un’occasione mi scrisse dicendo che pensava di farla finita.
Come è possibile che questo giovane musulmano, che ai miei occhi era sembrato essere una vittima, abbia finito per compiere un atto tanto orribile? Questa incarnazione del Male era la stessa persona che mi aveva raccontato le sue pene d’amore?
Da Kuwait City a West London
La famiglia di Mohammed Emwazi apparteneva alla minoranza Bedoon, una popolazione del Kuwait cui è negata la piena cittadinanza. Negli anni Ottanta suo padre, Jassem, nonostante la condizione di apolide, aveva trovato lavoro come poliziotto nella città di Tayma’a, trenta chilometri a nord ovest di Kuwait City. Nel 1993, quando Mohammed aveva sei anni, la famiglia decise comunque di stabilirsi in Inghilterra, perché dei lontani parenti che si erano trasferiti a Londra la descrivevano come un crogiuolo di fedi e etnie che convivevano in assoluta libertà. A Londra Jassem lavorava come tassista e faceva consegne per i negozi, mentre sua moglie, Ghaneya, curava la casa e si occupava di Mohammed, delle sue tre sorelle e del fratello minore. In famiglia si parlava arabo e tutti frequentavano la moschea locale, ma non erano strettamente osservanti – tanto è vero che Mohammed frequentò le elementari in una scuola anglicana, la St. Mary Magdalene. Oggi i suoi insegnanti e i suoi compagni di scuola dicono che non era affatto diverso dagli altri bambini. A dieci anni Mohammed diceva che da grande avrebbe voluto “fare il calciatore e segnare un gol” per la sua squadra del cuore, il Manchester United. Nel questionario scolastico cita come videogioco preferito la saga ammazza-tutti Duke Nukem: Time to Kill, e come libro How to Kill a Monster, un thriller per ragazzi. Il suo colore preferito è il blu, l’animale la scimmia. Gli piacciono le patatine e adora guardare i Simpson. Un amico racconta che, ai tempi delle superiori, lui e Mohammed stavano sempre insieme: «Tutte le domeniche ci vedevamo per giocare a calcio al parco di Paddington e poi andavamo al bar. Ci divertivamo. Era un ragazzo normalissimo». Lo stesso amico, però, cita un episodio che per la prima volta gli fece pensare che Emwazi potesse avere idee estremiste. Fu durante una lezione in classe sulla Shoah: «Sentii Mohammed bofonchiare: “Bene. Se la sono meritata”. Credevo stesse scherzando, ma in seguito mi disse che odiava gli ebrei e che li considerava responsabili delle sventure dei musulmani. Diceva sul serio, odiava gli ebrei! Se passavamo davanti alla casa di un ebreo gli urlava delle parolacce».
Sul tesserino universitario la foto di Mohammed Emwazi è quella di un ragazzo con il berretto da baseball e gli abiti firmati, più simile a un gangsta rapper che a un devoto musulmano. Ma a quanto pare già prima di laurearsi all’Università di Westminster aveva fatto molti passi verso la radicalizzazione. L’amico di famiglia che ho intervistato sostiene che avesse abbracciato l’Islam più come ideologia che come religione. Era contro l’invasione dell’Iraq da parte dell’Occidente e contro l’occupazione stabile di un qualunque paese musulmano: «Incolpava l’America della morte di milioni di musulmani». Ma ancora oggi non è chiaro se nel 2009 Emwazi fosse già pronto a dare uno sbocco violento alla sua posizione politica.
Un morto che cammina
Quando lo conobbi io, nel dicembre 2010, Mohammed Emwazi mi disse che pensava che la sua storia avrebbe potuto interessarmi perché avevo già scritto di casi simili al suo. Mi diede un numero di cellula- re da richiamare. Mi rispose con voce calma e pacata. Mi raccontò che i servizi segreti gli avevano rovinato la vita qui in Inghilterra e ora stavano cercando di impedirgli di rifarsene una in Kuwait. Voleva incontrarmi per raccontarmi di persona cosa gli stava capitando. C’erano altri dettagli che di sicuro mi sarebbero interessati. Stabilimmo di vederci in una caffetteria vicino casa sua. Lo ricordo come un ragazzo ben vestito, in jeans e scarpe da ginnastica, felpa e giaccone. Anche se non mi aveva fatto una descrizione di sé non ebbi difficoltà a riconoscerlo quando entrò nel locale. Aveva la barba, e la malcelata fierezza dell’andatura contrastava con l’aria mite. Parlava misurando le parole, e con un linguaggio piuttosto forbito. Avevamo qualcosa in comune: anch’io mi ero laureato alla Westminster University. Nel corso della nostra conversazione apparve convintissimo di essere una vittima innocente di uno spietato stato di polizia e che quello stato di polizia gli aveva rovinato la vita. Il racconto che mi fece dei suoi guai con l’M15 mi ricordò tante altre vicende che avevo sentito raccontare negli ultimi due anni.
Quel giorno all’aeroporto di Heathrow
Parlammo per più di un’ora della sua vita in Gran Bretagna e di quello che gli era successo all’aeroporto di Heathrow, del fatto che la polizia e i servizi segreti non si erano fatti alcuno scrupolo a fermarlo senza nessuna giustificazione e a porgli domande sulla sua vita privata per poi accusarlo di essere un terrorista. Disse che non aveva nessuna intenzione di spiare i musulmani per conto del governo britannico e che voleva solo vivere la sua vita. Gli chiesi allora di raccontarmi con precisione la presunta aggressione da parte del poliziotto e l’interrogatorio subiti all’aeroporto di Heathrow. Mohammed ripercorse la vicenda passo passo, raccontandomi che in spregio all’Islam l’agente aveva gettato a terra la sua copia del Corano, che era stato aggredito perché alla fine dell’interrogatorio aveva risposto al telefono e che poi lo avevano abbandonato a Heathrow all’una di notte, senza neppure scusarsi, e senza la promessa di aiutarlo a prenotare un altro volo per il giorno successivo. Ma a fargli male erano soprattutto le telefonate anonime e le visite dei servizi segreti a casa dei genitori. «Se volevano farmi delle domande dovevano parlare con me, che bisogno c’è di coinvolgere i miei o le mie fidanzate?».
Era la prima volta che faceva riferimento a delle fidanzate.
«Per colpa loro», mi disse, «le ho perse tutte e due. Mi hanno lasciato perché i servizi segreti erano andati a casa loro a parlare con i loro familiari». Poi scese nei dettagli: «Una ce l’avevo qui a Londra, e l’altra in Kuwait. A Londra quelli dei Servizi hanno detto alla famiglia della mia ragazza che sono un terrorista. Da quel momento non hanno più voluto che la sposassi». Mohammed si disse anche convinto che l’MI5 aveva deciso di creargli il massimo dei problemi e che le loro azioni erano molto ben calcolate. Disse inoltre che ormai sapeva che gli agenti dell’intelligence avevano intercettato tutte le sue telefonate.
Gli chiesi allora della seconda fidanzata e di come i Servizi avessero mandato a monte anche quell’altra sua relazione. «Fu mentre ero in Kuwait. La famiglia della ragazza ricevette una telefonata in cui la informavano che ero indagato. Così né lei né i suoi familiari vollero più vedermi. Accadde lo stesso con i miei datori di lavoro – quando seppero dell’M15 non vollero più avermi come dipendente». Omar (il fratello di Mohammed, ndr) racconta che la rottura del fidanzamento turbò moltissimo la famiglia Emwazi. «Mohammed non pensava che a fidanzarsi. Era sempre alla ricerca di una moglie. Tutti i suoi amici si erano accasati, tranne lui. Era la cosa che lo faceva più soffrire».
Raqqa, 12 novembre, h. 23.41
Nel settembre 2015 i servizi di sicurezza misero a segno un grosso colpo. Un agente operativo a Raqqa, capitale dell’autoproclamato Stato Islamico, aveva scoperto che Emwazi era sposato con una donna da cui aveva avuto un bambino. Aveva raggiunto in Siria l’obiettivo perseguito inizialmente a Londra e in Kuwait: trovare una moglie e farsi una famiglia. Ma proprio il desiderio di sposarsi, nutrito da sempre, avrebbe segnato la sua rovina. L’agente dei servizi a Raqqa aveva fornito a Washington l’indirizzo più recente della moglie di Emwazi. Non restava che attendere che il giovane Mohammed andasse a trovare lei e il figlio.
Il 12 novembre 2015, alle 23.41 ora locale, Emwazi fu identificato mentre usciva dall’appartamento della moglie. Salì su un pick-up assieme a un altro jihadista, probabilmente uno dei cosiddetti “Beatles”. Un drone americano Predator dotato di missili Hellfire in quel momento si trovava a chilometri di distanza, invisibile nel cielo notturno, ma poco prima di mezzanotte aveva già nel mirino gli jihadisti. Quando Emwazi stava per scendere dal veicolo il missile cadde al suolo cancellando tutto quello che c’era nel raggio di sessantacinque metri. Un funzionario americano disse che l’obiettivo era stato «centrato in pieno» e che Emwazi era stato fatto «evaporare» senza fare altre vittime.
La mattina dopo mi sorpresi nello scoprire che apprendere la notizia della sua morte non mi faceva quasi nessun effetto. Erano passati circa cinque anni da quando mi aveva confidato di sentirsi «un morto che cammina».
Mi sforzai di immaginarlo sposato, con un figlio, mentre trascorreva del tempo con la sua famiglia. Mi chiedevo come fosse arrivato al matrimonio tanto desiderato. Pensava davvero di poter sfuggire al suo castigo nascondendosi nello Stato Islamico? O aveva continuato a sentirsi un morto che cammina?