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 2016  febbraio 08 Lunedì calendario

Khamenei è sempre in ansia (e questo è un problema)

Dipinto su facciate di palazzi alti fino a dieci piani nel centro di Teheran, Ali Khamenei sorveglia l’Iran da ventisei anni, il tempo di una generazione. La ritrattistica ufficiale lo sempre vuole con il turbante nero, la lunga barba grigia, la kefiah palestinese (questa però facoltativa), gli occhiali sovradimensionati che dilatandogli le pupille gli fissano nel volto lo sguardo sospettoso e vigile del gufo reale mentre scruta il suo territorio. Non manca mai un abbozzo di sorriso che vuole essere amichevole ma pare un ghigno, e non contribuisce a renderlo simpatico alla maggioranza degli iraniani. Nessuno gli riconosce talenti particolari, neppure lui stesso: “Sono una persona con limiti e difetti, e un teologo minore”, disse di sé presentandosi alla nazione quando il Consiglio degli Esperti lo nominò successore dell’imam Khomeini. E i suoi rivali non poterono che convenire: “Inadeguato, illegittimo”, sentenziò dalla sommità della gerarchia teocratica il Grand’Ayatollah Montazeri, alludendo al fatto che Khamenei non aveva i titoli per essere nominato Guida suprema (i suoi sostenitori avevano dovuto elevarlo al grado di Ayatollah in fretta e furia, con una procedura assai dubbia). Di lì a poco le Guardie rivoluzionarie tolsero al Grand’Ayatollah il suo orgoglioso turbante e gli imposero una berretta da notte sulla testa: Khamenei è vendicativo. E anche astuto, abile, manovriero. Ma la sua forza risiede in quella che altrimenti potrebbe essere una debolezza: secondo Karim Sadjapour, il più attendibile tra i suoi biografi, Ali Khamenei soffre (o ha sofferto a lungo) di depressione.
Quando si chiamava melancholia la depressione dei sovrani era sempre motivo di inquietudine tra i sudditi. Dove condurrà il nostro re? E cosa faremo, se lo sprofondasse nella follia? Ma nel caso di Khamanei la depressione pare essere stata saggia consigliera: trattenendolo dal compiere scelte drastiche, l’avrebbe indotto a perpetuare una tattica dilatoria che a conti fatti si è rivelata la più efficace. Né confrontazione né cedimento, sintetizza il biografo Sadjapour. Fuggire lo scontro ma negarsi al compromesso. Tirare avanti, aspettando il passo falso del nemico. Ed ecco i nemici inciampare, uno dopo l’altro. Il nemico storico, Saddam, si suicida con l’invasione del Kuwait. Poi l’America di Bush invade l’Iraq e lo destabilizza, col risultato di consegnare la popolazione scita ai protettori iraniani. Lo stesso risultato sembra produrre adesso la miopia con la quale i Saud si lanciano a testa bassa contro le comunità scite della penisola arabica. Alla lista delle fortunate inettitudini manca l’arci-nemico israeliano, ma giudicare dalla pochezza dimostrata in questi mesi dal governo Netanyahu, anche a Gerusalemme friggono dal desiderio di spararsi sui piedi.
Ovviamente la circospezione con cui la Guida procede può essere spiegata con cause politiche. Il khomeinismo è troppo diviso al suo interno per sopravvivere a una conduzione tirannica dello Stato. E l’Iran è uno stato di polizia brutale ma non una dittatura personale: alla formulazione della politica estera, per esempio, concorrono fino a dodici centri di potere. Perfino la teologia scita, nella città santa di Qom, produce teorie conflittuali, dalle più autoritarie alle semi-liberali. Resta il fatto che se la Guida volesse, potrebbe imporsi con la forza. Ha poteri quasi smisurati e strumenti congrui. È comandante in capo delle Guardie rivoluzionarie, l’elite militare. Influenza il parlamento. Attraverso centinaia di “commissari religiosi” più potenti dei funzionari dello Stato controlla la magistratura, le Forze armate e soprattutto le potentissime bonyads, le Fondazioni filantropiche, colonna vertebrale del blocco sociale che non mai mollerà il regime.
Che il regime khomeinista sia guidata da un Depresso supremo in fondo è nelle cose. Per quanto si adoperi non riuscirà mai a cancellare il suo peccato d’origine, la colpa che il Grand’Ayatollah Montazeri osò rimproverare allo stesso Khomeini: pochi mesi dopo la rivoluzione che scacciò lo shah (1979), i khomeinisti sterminarono migliaia di alleati laici, con processi-farsa che ricordarono i processi staliniani per arbitrarietà del giudizio. Khamenei ebbe un ruolo nella strage, e non dei minori, tanto che nel 1981 un’organizzazione armata comunista, i Mujahedden-i-khalq, tentò di ucciderlo. Accadde durante una conferenza-stampa. L’attentatore si fingeva giornalista, gli lasciò sotto il microfono un registratore imbottito di tritolo. Khamenei si salvò ma perse una mano e l’uso del braccio, oltre a riportare ferite che sarebbero concausa della sua depressione. Come per risarcirlo delle sofferenze subite, quello stesso anno il regime lo elesse presidente della Repubblica.
Prima del corpo-a-corpo con il comunismo iraniano, Khamenei non era una figura lugubre. Così come molto clero khomeinista, proviene da una famiglia povera (secondo di otto figli, racconta di essere cresciuto a “pane e uva”). Crebbe in seminario, subì arresti (sei volte) e le torture della Savak, la polizia segreta dello shah, fu condannato all’esilio interno in una regione semi-desertica dell’Iran. Queste traversie però non lo incupirono.
Quando Khomeini lo volle con se, aveva fama di religioso eterodosso, appassionato di poesia e di musica; portava un orologio da polso, all’epoca scandaloso per gli standard del clero scita. Come presidente dell’Iran non si distinse per estremismo. Come Guida suprema spesso ha appoggiato l’ala populista, “falchi” come il presidente Ahmadinejad, una sua creatura; e adesso sta manovrando per tenere fuori i riformisti dal Consiglio degli Esperti, l’organo che sceglierà il suo successore. Ma tollera i riformisti, quando gli sono utili: se ne è servito per concludere l’accordo sul nucleare con gli Stati Uniti. Khamenei lo giudica vantaggioso, però non si fida degli americani. E neppure degli iraniani, forse. Se la rivoluzione perde il nemico necessario, il Grande Satana, il regime riuscirà ancora a mantenere serrati i ranghi? Un nuovo motivo di ansia per il Depresso supremo.