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 2016  febbraio 08 Lunedì calendario

Il mito di Paganini, indiavolato, sporco e avaro

Niccolò Paganini mancava tutto ciò che sembrava indispensabile per una qualsiasi carriera: era brutto, magrissimo e spettrale, addirittura spaventoso con quel volto livido e sdentato e cadaverico, il naso aquilino e sporgente, i capelli neri, gli occhiali neri, i vestiti neri, goffo nei modi, d’aspetto malaticcio, puzzava pure. Inoltre era ufficialmente maleducato, avaro, avido, senza cuore, burlesco nel suo inchinarsi come un burattino dell’inferno. Le esagerazioni e le caricature del periodo romantico sono cosa nota, ma lo sono anche le descrizioni che a Paganini furono riservate da critici e compositori già conosciuti per sobrietà. Franz Schubert, che nell’ascoltarlo ebbe una crisi di pianto, disse: «Durante l’adagio ho sentito cantare un angelo». Fryderyk Chopin parlò di «perfezione assoluta». Franz Liszt lo definì «insuperabile». Robert Schumann ammise che «mai fu dato di ascoltare un fenomeno del genere». Giacomo Meyerbeer concluse che «dove terminano le nostre facoltà razionali, incomincia Paganini». E ci fermiamo qui.
Niccolò Paganini nacque a Genova il 27 ottobre 1782. A nove anni diede il suo primo concertino e a diciotto padroneggiava il violino in maniera così perfetta che saltò il conservatorio e divenne musicista alla Corte di Lucca. A vent’anni, percepiva già 200 lire a sera quando un normale musicista ne prendeva 15. Il violinista affinò la sua tecnica, ampliò il suo repertorio e girò tutte le città d’Italia con la sua carrozza scura e foderata di cuoio: teneva le tendine tirate e, come bagaglio, gli bastavano una vecchia cappelliera e una logora custodia per violino; nessun libro, solo un quaderno rosso con i conti delle entrate e delle uscite. Anche per questo lo giudicarono un inguaribile pitocco. Non c’era uditorio che non ne fosse inquietato e che non lo detestasse, prima che alzasse l’archetto.
Le associazioni tra Paganini e il demonio cominciarono allora. Si favoleggiò che per suonare adottasse tecniche ignote e misteriose. Ogni tanto gli orchestrali cercavano di esaminare il suo strumento – uno Stradivari, poi un Guarneri del Gesù – ma ogni volta lo trovavano scordato e impossibile da suonare. Si suppose che Paganini avesse inventato una propria accordatura o che fosse capace di cambiarla in corso d’opera, e c’era del vero. Era sua abitudine distribuire le partiture solo immediatamente prima delle prove salvo ritirarle subito dopo: oltretutto vi comparivano solo i passi per l’orchestra, degli assoli non c’era traccia.
«NON RIPETE»
Paganini suonava a occhi chiusi. È anche per questo che le composizioni che il violinista diede alle stampe non superarono i cinque numeri d’opera: quelle che non volle mai pubblicare, le più importanti, dovevano essere eseguite soltanto da lui. Una sua certa altezzosità mista all’ossessivo timore di essere copiato – al tempo non esistevano tutele legali – è anche all’origine dell’abusata espressione “Paganini non ripete”, parole che il violinista fece riferire al governatore del Teatro Carignano di Torino, Carlo Felice, che gli aveva fatto chiedere di ripetere un brano.
Nel 1826 Paganini cedette alle lusinghe che il cancelliere Metternich gli rivolgeva da tempo. E così partì per una tournée interminabile che l’avrebbe portato in Austria, Germania, Polonia, Francia, Inghilterra, Scozia e Irlanda. Il successo fu tale che non mancarono scene isteriche, svenimenti e fanatismi da concerto rock. A Londra giunse a guadagnare in poco tempo 6000 sterline di allora (circa 725.000 euro) anche se passò un guaio perché cercò di fuggire con una diciottenne. L’impatto fu devastante soprattutto a Vienna, indubbia capitale della musica e del mondo occidentale. I biglietti per il primo concerto di Paganini, previsto alla sala da ballo imperiale, furono venduti a cinque volte il loro prezzo corrente, al punto che si diffuse il vezzo di indicare la banconota da cinque fiorini come un “Paganiner”. L’influenza del violinista, di lì in poi, si allargò al quotidiano: cominciò la moda incontrollata degli scialli alla Paganini, quindi dei fazzoletti, dei guanti, dei cappelli alla Paganini, delle scarpe, delle tabacchiere, delle pipe alla Paganini, dei piatti, delle bistecche, persino delle frittate alla Paganini. Nessuno, almeno sino all’avvento della musica leggera, avrà un successo paragonabile al suo.
Ma tutto questo ebbe un prezzo. Salato. Su di lui circolavano dicerie di ogni genere. Si diceva che quando sua madre stava morendo, egli le fece alitare l’ultimo respiro sul suo violino; che egli era un criminale che aveva trascorso molti anni in prigione, avendo per unico compagno il violino; che aveva gradualmente consumato tutte le corde salvo la quarta, di qui l’abilità nell’eseguire qualsiasi brano su quella corda. A nulla servì l’aver fatto pubblicare testimonianze ufficiali a dimostrazione che non era mai stato in prigione. Neppure servì, a por fine alla storia della morte della madre, la pubblicazione di una lettera per dimostrare che era ancora viva. Il Paganini diabolico germogliò su un terreno già fertile.
C’erano critici musicali serissimi che erano disposti a giurare d’aver visto Satana guidargli l’archetto: Stendhal insisteva nel dire che Paganini avesse imparato a suonare «non dopo otto anni di conservatorio, bensì per un errore amoroso che lo aveva gettato in prigione per molti anni». La storia fu anche perfezionata: dicevano che l’unica corda del suo violino, in galera, era stata strappata dall’intestino di una ragazza che aveva assassinato.
Il problema è che a propiziare il mito demoniaco di Paganini contribuì direttamente lui, e che molte leggende, anche quando non vere, avevano comunque un fondo di verità. In effetti era lui a presentarsi agghindato a quel modo, a incoraggiare i parossismi del pubblico con atteggiamenti e posture, a suonare “Le streghe” come pezzo forte del suo repertorio, ad avvolgere ogni esecuzione nel segreto. Era lui a raccontare di non aver bisogno di esercitarsi e a non pubblicare le sue opere interpretate oltretutto con un violino insuonabile.
LA FIGLIA MORTA
Era lui ad aver cercato di dimostrare l’esistenza in vita di sua madre – analfabeta – con una lettera falsa, come si appurò successivamente. C’era del vero anche nella faccenda della carcerazione. Paganini fece di tutto per nasconderlo, ma nel settembre 1814 frequentò e ingravidò una minorenne – come detto – che l’anno successivo, il 24 giugno, diede alla luce una bambina morta. La ragazza si chiamava Angelina Cavanna e Niccolò fu imprigionato per ratto e seduzione di minore: dovette rifondere danni salatissimi. Le voci sul suo imprigionamento, distorte a dovere, partirono da qui. A complicare le cose c’è che in tutte le biografie di Paganini, anche le più accurate e moderne, vi è sempre un vuoto di qualche anno.
È pure comprovata una propensione di Paganini al macabro e alla necrofilia. Fu l’alto magistrato Matteo Niccolò de Ghetaldi, in alcune lettere, a raccontare che il violinista nel 1824 suonava ogni notte al cimitero del Lido di Venezia, attorniato dagli sghignazzi e dai pianti del pubblico seduto sulle lapidi. Altre volte il musicista fu visto recarsi negli ospedali ad assistere all’agonia dei colerosi. Il personaggio era così, un fondamentalista del romanticismo che incedeva nello scenario drammatico e abbacinato, nella vividezza del dolore e dello spasimo. Ma il peggiore segreto che nascondeva era la sua malattia, quel morbo autoindotto che da ometto macabro e stravagante l’aveva trasfigurato nell’immortale Lucifero del pentagramma. Niccolò Paganini aveva 6 anni quando fu dato per morto per un semplice morbillo: stavano per sotterrarlo vivo ed era già avvolto nel sudario, solo un piccolo sussulto lo salvò da esequie premature.
Durante l’infanzia soffrì per la sua pelle ipersensibile che in ogni stagione lo costringeva a coprirsi pesantemente e a patire malanni da raffreddamento: dopodiché la corrispondenza del violinista allude a problemi di salute soltanto a partire dal 1820, lui trentottenne. In quel periodo lo affliggeva una tosse cronica e stava già perdendo peso. Era iniziato il lento assassinio cui fu sottoposto da parte dei medici. Uno specialista palermitano gli prescrisse dei lassativi che cominciarono a devastarlo. Poi, nel 1823, la sua cattiva fama di dongiovanni fece interpretare la sua tosse e l’aspetto cadaverico come i sintomi di una latente sifilide, malattia per curare la quale – come accadde per Mozart – al tempo veniva somministrato il mercurio in dosi che lo stesso Paganini definì «mortali». Gli si infiammarono le mucose della bocca, iniziarono a cadergli i denti. È questo il Paganini che il mondo avrebbe ricordato. Perseguitato dalla propria caricatura, ecco che una nuvola di ritratti, fatti da diversi artisti, cominciò ad apparire per le botteghe di Londra. Il demonio e lui, per sempre.