la Repubblica, 8 febbraio 2016
Giorgio Di Centa ricorda: «A Torino mi sono sentito un re. Quando mi rivedo, piango»
Dieci anni dopo quel giorno: domenica 26 febbraio 2006, le luci stanno per tramontare sui Giochi di Torino ma c’è ancora una maratona da faticare, la 50 km di fondo. Dal budello sbuca l’ultimo uomo con l’ultimo oro, Giorgio Di Centa. «Anche adesso che rivedo la gara, piango».
Ce lo ricordi.
«Ho fatto una cosa grande. Non ero il favorito, ma ho tenuto nel gruppo al comando per tutta la gara, poi nella sprint finale, in quegli interminabili 300 metri di rettilineo che portavano al traguardo, ho messo giù la testa e sono passato avanti. La gente urlava. All’arrivo, sono caduto per terra».
Dicendo: ora posso anche smettere di correre.
«E invece eccomi ancora qua, a 43 anni. Non si può vivere di soli ricordi, ho una famiglia incredibile e caratterialmente sono uno che tende a dimenticare ma di essere stato campione olimpico no, non te lo puoi scordare. Quel giorno rimane il più bello della mia vita. Anche se ci ho messo un po’ a realizzare. Anche adesso incontro gente che mi dice: eravamo tutti con te. Un oro in casa. Ho capito col tempo quanti italiani mi portavo addosso in quella volata. L’orgoglio più grande».
Il momento indimenticabile?
«L’attesa prima della cerimonia, poi le forze dell’ordine che mi accompagnano allo stadio Olimpico. Lì, davanti a 35mila persone, l’abbraccio con mia sorella Manuela sul podio. Ho ancora il batticuore».
La sua migliore Olimpiade?
«Senza dubbi, e non solo per l’oro. Ma perché è stato l’ultimo grande evento sportivo che il nostro paese ha saputo gestire. Peccato che gli impianti in montagna siano stati abbandonati. Però la città ne ha tratto benefici: noi eravamo a Pragelato e della vita a Torino abbiamo percepito poco, ma che l’evento fosse riuscito si è capito anche dalle conseguenze. In Italia non è scontato. Ora si spera in Roma 2024, ma per organizzare un’Olimpiade bisogna essere certi di saper investire sul territorio e accertarsi che ci sia un ritorno, costruire il meglio a costi contenuti».
Quale eredità ha lasciato Torino 2006?
«Per la vita privata il mio quarto figlio, William. Io e mia moglie Rita avevamo deciso di chiudere con le prime tre bambine che adesso hanno dai 18 ai 12 anni, invece dopo Torino è arrivato lui. Non era calcolato, anzi un imprevisto, ma il suo arrivo è stato l’ennesimo regalo di un’Olimpiade felice. Il 2006 per me è stato un anno speciale, vissuto da re. Io sono una persona semplice, quello che mi ricompensa dei sacrifici sono le persone che in giro per il mondo mi dicono ancora quanto mi siano grati per Torino».
Portabandiera a Vancouver 4 anni dopo, infatti.
«Un onore. Rappresentare tutti gli italiani è qualcosa di incredibile».
Ma lei non doveva ritirarsi?
«Aspettate la fine del prossimo anno, poche volte come adesso mi sono sentito così in forma e allenato così duramente: 750 ore per questa stagione, prima di Sochi ne avevo fatte 100 in meno. Mi sono operato all’ernia del disco dopo le Olimpiade russe, mi preparo col gruppo sportivo dei Carabinieri e insieme decidiamo gare e futuro».
Cosa fare da grande?
«Magari un incarico in ufficio con l’Arma».
Anni di buio, ora il fondo riparte con Federico Pellegrino?
«Speriamo, perché nel nostro sport è difficile ormai trovare talenti. Il movimento si è un po’ fermato, pochi soldi e poca risonanza, i giovani si avvicinano sempre meno, attratti da discipline meno dure e più gratificanti. E poi la neve non c’è quasi più: in- verni come questo, e forse anche Torino sarebbe stato un fiasco».