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 2016  febbraio 08 Lunedì calendario

Dieci anni fa le Olimpiadi invernali di Torino. Quei 17 giorni che cambiarono per sempre la città

Se ne vedono ancora, ogni tanto. Sbucano d’improvviso all’angolo di una via, anche in questo inverno che non sa proprio essere freddo. Sono le giacche a vento grigie bordate di rosso e giallo, stinte come divise di reduci, gloriose come un vecchio berretto da alpino. Le portavano i volontari di Torino 2006 e molti ancora le indossano, perché l’orgoglio non è un tessuto che sbiadisca. Dieci anni, quasi una vita. Il tempo in cui un figlio finisce le elementari, ora sa scrivere bene e far di conto e conosce tutte le capitali del mondo. Ma Torino, allora, nel mondo chi la conosceva?
«Where is Turin?» si chiedevano infatti l’un l’altro i delegati del Cio nel 1998, alla convention di Seul. Dovevano capire, e decidere se questa misteriosa Turin sarebbe stata migliore di Sion nell’organizzare un’Olimpiade. E alla fine decisero di sì. La spinta fondamentale la diede l’avvocato Agnelli, anche se nessuno lo dice. Fu lui a legare i fili, ricordando che Turin significava tante cose: automobili, memorabili partite di calcio, un lenzuolo venerato da miliardi di persone e un futuro da inventare con più fantasia che nostalgia.
Fino a quei giorni vertiginosi e matti, la città dei bogianen era troppo fiera di sentirsi un segreto ben custodito. Pare impossibile oggi, dopo che il New York Times ha scelto Torino come uno dei 52 posti al mondo dove andare nel 2016, il solo in Italia. Avere cancellato quel “where?” è il primo lascito immateriale dei Giochi del 2006. Perché, prima è cambiata la percezione che il luogo aveva di se stesso, poi è venuto il resto: le notti bianche (a Torino, dove si andava a dormire al massimo alle undici di sera!), la prima linea della metropolitana, i palazzi ripuliti, gli impianti (non proprio tutti un successo, quelli in città meglio di quelli in montagna), le piazze tolte alle auto nella città dell’auto e consegnate alla gente. Come scoperchiare una pentola piena di bellezza: ci voleva lo sport, per dare una mossa a Torino. «Abbiamo soprattutto compreso la necessità di nuove vocazioni». Piero Fassino è il sindaco che ha raccolto l’eredità: mai facile, quando bisogna fare in modo che il capitale non si addormenti ma fruttifichi ancora. «Torino ha saputo rinnovare il suo profilo industriale, scoprendo finalmente il turismo». Ecco perché è diventata la quinta città più visitata d’Italia, mentre prima dei Giochi era un miracolo vedere qualcuno con una cartina aperta. «Forse solo Torino, insieme a Barcellona, tra le città olimpiche ha saputo negli ultimi decenni sfruttare l’esperienza per cambiare davvero», dice Evelina Christillin che delle Olimpiadi fu uno dei motori più caldi, volto e vicepresidente del Toroc, il comitato organizzatore. Nessuno ha dimenticato il suo urlo, quando Seul decise che Torino andava proprio infilzata con una bandierina, ovviamente quella a cinque cerchi, la stessa che nella cerimonia inaugurale del 10 febbraio venne portata solo da donne (c’erano anche Sofia Loren, Susan Sarandon e Isabel Allende), mai successo nella storia delle Olimpiadi. Furono così belle, le cerimonie, che i creativi guidati dal torinese Andrea Varnier stanno preparando quelle di Rio 2016: così, noi italiani mostreremo ai brasiliani come si fa un carnevale.
La luce del braciere, il più alto di sempre, insieme alle ombre dei denari spesi (3,5 miliardi di euro) per opere che funzionano ancora (l’ex PalaIsozaki è sempre pieno) e per altre, come la pista di bob e slittino a Cesana, finite invece nell’abbandono: a Cesana non vanno neppure più i ladri del rame che saccheggiarono i cavi elettrici fino all’ultimo fila- mento. Impianti inutili, come troppo spesso accade dopo un’Olimpiade (Atene, Atlanta, persino Pechino): la pista del biathlon a San Sicario, quella del freestyle a Sauze d’Oulx, il trampolino di Pragelato. Poi ci sono le strutture che vivacchiano come l’Oval del Lingotto, anche se il vero buco nero resta il Villaggio Olimpico, l’ex Moi ai mercati generali, dove 800 rifugiati di una cinquantina di nazionalità vivono tra sequestri preventivi e attese di sgombero. Camminando tra le palazzine semidistrutte c’è aria di sfacelo, qui si spaccia e si campa senza riscaldamento, eppure il Villaggio doveva dare nuovi tetti alla città. È andata molto meglio alle Palazzine della Dora, dove ora svetta l’avveniristica sede universitaria di Giurisprudenza. Un destino diseguale che non ha ancora concluso il suo corso.
Eppure, tutti i torinesi fanno data da quei giorni per sentirsi abitanti di un mondo nuovo, o almeno rinnovato. Lo slogan “Passion lives here”, oltre l’enfasi che sempre accompagna questo tipo di motti, rende ancora l’idea dello stato d’animo collettivo. «Furono davvero giorni di enorme emozione» ricorda Valentino Castellani, che del Toroc era presidente e di Torino era stato sindaco. «La cerimonia d’apertura mostrò a quasi due miliardi di persone il grande lavoro svolto in sette anni di scommesse per lo più riuscite. Le notti delle premiazioni in piazza Castello, ma anche le lunghissime veglie fino all’alba, sono state il momento di piena consapevolezza di quanto la nostra città fosse bella». E da allora, davvero, molti torinesi hanno imparato a volerle bene in modo diverso, scoprendola più a fondo e trovandoci, oggi, contenuti inimmaginabili, in grado di sgretolare i luoghi comuni sulla città operaia o ex operaia, grigia e fredda, sonnolenta e altera. Gli stessi argomenti che il New York Times ha appena proposto, e non si tratta di un “già visto” seppure nobilissimo l’Egizio o il Museo del Cinema, il Castello di Rivoli o la Reggia di Venaria – ma delle gallerie dei Docks Dora, dei graffiti di periferia nel progetto Arte in Barriera, del centro italiano per la fotografia “Camera” e del Museo Ettore Fico oltre ad Artissima, Paratissima e Luci d’artista, ai festival jazz e al Salone del Gusto. Una città per riempirsi occhi e bocca.
Dieci anni, una vita. Dalla notte dell’apertura, quando Pavarotti cantò per l’ultima volta in pubblico dentro un playback doloroso e struggente, fino alla cerimonia di chiusura in cui centinaia di ragazzine vestite da sposa volteggiarono dentro un sogno di infinita giovinezza. Agli spettatori vennero consegnate maschere di cartone, angeli e diavoli per concludere in festa quel pazzesco carnevale. Paradisi più che inferni, e dietro le maschere da allora c’è un volto nuovo.