Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 08 Lunedì calendario

Floriano Bodini, ostico, spigoloso e nervoso. Come il suo papa (ora in mostra)

Non volano più le colombe di Floriano Bodini (1933-2005). Sono passati dieci anni da quando l’artista se n’è andato, ma si ricordano la sua faccia da imperatore romano, i capelli arricciati sulla fronte, come nella statuaria dell’epoca. Con una differenza: invece della tunica, indossa pantaloni di fustagno e borbotta continuamente, lamentandosi di tutto e di tutti. Alla fine, però – e basta poco – se ne esce con una risata che lo concilia col mondo.
Irascibile, apparentemente scontroso, Floriano è comunque ostico, spigoloso, nervoso come la sua scultura. Ma, come sa bene il suo amico Peppino Gatti, anche un po’ malinconico. Cupo magari, soprattutto quando indossa i panni dell’orso bruno lombardo; il suo rugliare, però, non è minaccioso, perché alla fin fine si tratta sempre di un orso domestico. Probabilmente un comportamento, questo, «ereditato» da Francesco Messina, suo maestro all’Accademia di Brera (aspetto di orso, ma travestito da musicista), dal quale apprende tutto quello che c’è da sapere in scultura.
Floriano è nato a Gemonio, in provincia di Varese. Qui, nel 1999, viene inaugurato il Museo Bodini. E dal museo vengono alcune opere della rassegna – curata da Nicola Loi, Flavio Arenzi, Maria Stuarda Varetti e Lara Treppiede – che la Fondazione Banca del Monte di Lucca gli dedica a Palazzo delle Esposizioni (sino al 6 marzo) per il decennale della morte. In mostra circa 60 lavori (1957-2000): sculture, disegni e grafiche. Fra i ritratti, quello del padre, della figlia Paola, di Mary Clarke (la scrittrice americana non lo ritira: lo paga, dice che manderà l’indirizzo dove spedirlo, ma non si fa più sentire); parte del bestiario (colombe, gatte, cavalli, rinoceronti, cani, scimmie e civette che avrebbero fatto la gioia di Rossana Bossaglia). E un buon numero di bozzetti dei monumenti a Paolo VI, che meritano un discorso parte.
Nel 1962, Bodini incontra l’arcivescovo di Milano, Giovan Battista Montini («Teneva i piedi stretti e il corpo immobile», ricorderà). Quando decide di dedicargli una scultura in legno, comincia a scandagliare l’uomo, il sacerdos, l’ambiente in cui si muove, il suo lavoro pastorale. Dopo qualche mese, Montini viene eletto al soglio di Pietro col nome di Paolo VI. La scultura lignea, Ritratto di un Papa, viene collocata nei Musei Vaticani, anche grazie a don Pasquale Macchi, un monsignore che nel giro di pochi anni arricchisce la Santa Sede con decine di opere di artisti contemporanei.
L’opera di Bodini fa molto scalpore. Perché? Se all’inizio Floriano nutre grande fiducia nel nuovo pontefice, col tempo questa gli viene meno: dall’idea di un Papa-padre passa a quella di un personaggio complesso, pieno di dubbi e contraddizioni. La scultura, scrive Mario De Micheli, «ha una sua forma urtante, irritante, non scevra da sgradevolezze e sconvolgenti ammonizioni». Ma non è che la prima. Una versione in marmo di Candoglia viene collocata all’interno del Duomo di Milano, nella galleria dei pontefici milanesi, dove ci sono anche Pio VI di Angelo de Marinis, Martino V di Jacopino da Tradate e Pio XI di Francesco Messina. Paolo VI è colto mentre, in ginocchio, guarda – come da una finestra – verso l’altare maggiore e verso i fedeli, riprendendo l’impostazione che fu di Gian Lorenzo Bernini e di Alessandro Algardi.
Nel 1986, Floriano torna ancora su Paolo VI: un bronzo, alto sei metri, è posto in cima ad una scalinata presso il Sacro Monte di Varese. Lo scultore puntualizza due aspetti: uno, severo – meno aspro e inquieto – che mostra il Papa nell’atto di benedire; l’altro, dolce (anche se si fa fatica a immaginare un Paolo VI dolce), con ai piedi un mazzo di fiori, un teschio e tre pecore simbolo del gregge.
La visione di Bodini pare decantata, così come il suo neoespressionismo barocco iniziale. Tolte asprezze e apparente incomunicabilità – scrive Carlo Bo nel saggio che accompagna il catalogo edito per l’occasione – l’artista»coglie il dramma dell’uomo, il divario fra le grandi ambizioni e il momento solenne e ultimo della vanità» e restituisce un Montini «non più lacerato e sconfitto, ma il prete» della sublime preghiera alle esequie di Aldo Moro.
Floriano fa parte della generazione di Banchieri, Ceretti, Ferroni, Romagnoni, Vaglieri e Guareschi – che vive in un periodo particolarmente ricco di contrasti del mondo cattolico, dove spesso Papi e vescovi vengono ritratti come rappresentanti del Potere – e i suoi Paolo VI lo fanno entrare di diritto fra i testimoni della storia della Chiesa di quegli anni.