La Stampa, 8 febbraio 2016
Trent’anni fa a Palermo cominciava il maxiprocesso alla mafia
Il 10 febbraio del 1986 era un lunedì. Ma per Palermo, per i siciliani non era un giorno qualunque. Quella mattina aveva inizio il primo grande processo contro Cosa nostra, più semplicemente il “Maxiprocesso” o – ancora più sinteticamente – “u Maxi”, termine che rendeva bene la familiarità con cui la società, ma anche la stessa mafia, accoglieva quella resa dei conti messa in piedi da Giovanni Falcone, da Paolo Borsellino e dai pochi magistrati che avevano fatto parte del famoso pool antimafia di Palermo.
Nessuno, ma proprio nessuno credeva che quel processo si sarebbe celebrato. C’era chi aveva addirittura ipotizzato una specie di legittima suspicione motivata con la necessità di evitare ulteriore spargimento di sangue a Palermo. Ma Falcone ostinatamente andò avanti affermando perentoriamente che il processo andava fatto in Sicilia, a Palermo, perché lì la mafia aveva offeso e delegittimato il popolo siciliano e rinunciare sarebbe equivalso ad arrendersi a Cosa nostra. E così riuscì ad ottenere che lo Stato si impegnasse, innanzitutto trovando i soldi, una barca di miliardi, per la costruzione dell’aula bunker, sicura e capace di ospitare tutti gli imputati, gli uomini della sicurezza, gli avvocati, i giornalisti, il pubblico, insomma garantendo un dibattimento “normale” e con tutte le garanzie. Nacque così l’astronave verde, come venne chiamata l’aula per via del colore predominante e della forma ottagonale, perimetrata internamente dalle gabbie che ospitavano i 475 imputati, guardati a vista da due carabinieri per cella. Un’opera monumentale, munita della tecnologia adatta alla digitalizzazione degli atti e protetta anche dai pericoli di un attacco missilistico, ipotesi allora presa molto seriamente.
I giubbotti antiproiettile
Quel lunedì di febbraio c’erano accreditati duecento avvocati e quasi 600 giornalisti giunti da più paesi. Qualcuno, esagerando, portò l’occorrente per effettuare collegamenti tv indossando elmetto e giubbotto antiproiettili. La procedura per entrare avrebbe scoraggiato chiunque, ma non i cronisti che quel giorno lo aspettavamo almeno dal 1983, da quando cioè Giovanni Falcone era riuscito a far collaborare Tommaso Buscetta, il pentito per antonomasia. Ciascun giornalista veniva schedato, gli venivano prese anche le impronte digitali, poi fotografato e “passato” al metal detector. La fila dei cronisti appariva sterminata. Arrivammo che non era ancora spuntato il sole, credendo di essere più furbi degli inviati arrivati dal Nord e dal resto del mondo. Dovemmo ricrederci quando trovammo, già appostato davanti alla porta blindata e munito dell’inseparabile binocolo da teatro, il mitico Giampaolo Pansa.
L’”astronave verde” era davvero spettacolare: ospitava più di mille persone ma restava immensa, trasmettendo l’idea della superiorità dello Stato legale rispetto alla boria dell’antistato. Apparivano piccoli, i mafiosi rinchiusi in cella. Ridimensionato Michele Greco, il “papa”, col suo Rolex d’oro e quell’aria da gran sacerdote, addirittura ridicolo Luciano Liggio con l’anello al mignolo e il sigaro cubano spento tra le labbra.
Un quadretto a parte meritavano gli avvocati, la maggior parte dei quali appiattiti sulle richieste dei loro clienti, che li volevano strumenti per sabotare il maxiprocesso. E così molti – un po’ come sta accadendo adesso al processo di “Mafia capitale” a Roma – finivano di assicurare il giusto diritto alla difesa per accostarsi quasi affettivamente ai loro assistiti e cedere a richieste poco decenti, come la lettura integrale degli atti, prassi desueta nei dibattimenti “normali” che sarebbe servita solo ad allungare il processo fino alla scadenza dei termini di carcerazione preventiva. Un’affezione clientelare giustificata anche dal ritorno economico che consentì a qualche legale l’acquisto di uno yacht, umoristicamente chiamato “Maxi”.
C’era la doppia Corte, nel caso fossero rimasti uccisi i “titolari”, presidente Alfonso Giordano e Piero Grasso giudice a latere. Ma c’era anche la doppia giuria popolare e il doppio Pm, Giuseppe Ayala e Domenico Signorino. Spesso l’aula si accendeva in una bolgia, quando si faceva dura la schermaglia tra accusa e difesa. O quando gli avvocati si spingevano, cosa inconsueta, a chiedere la ricusazione dei giudici designati. Alla bolgia non si sottraeva il pubblico.
Le donne
Ancora indelebili le immagini delle donne del mafioso Vincenzo Buffa che inveivano contro gli “sbirri” colpevoli di voler far pentire il boss. Inutile aggiungere che Buffa non si pentì mai più. Ma, in positivo, altrettanto indimenticabile l’ingresso di Vita Rugnetta (figlio ucciso nella guerra di mafia) che esibiva la foto del suo caro ai detenuti, sibilando semplicemente: “Assassini”.
E il silenzio che calò sull’astronave quando arrivò il momento dell’interrogatorio di Masino Buscetta. L’ex boss si presentò in doppiopetto blu e pantaloni grigi, camicia bianca e cravatta. L’aula divenne di gelo e dalle gabbie non volò una mosca. Poi il boss Pippo Calò, incautamente, chiederà il confronto uscendo distrutto dalla prorompente personalità di don Masino.
Così cominciò la rivincita dello Stato, tanto che Cosa nostra (alla condanna definitiva in Cassazione del gennaio 1992: 19 ergastoli e migliaia di anni di carcere) si vedrà costretta a cambiare pelle e ad abbracciare la via dello stragismo (Capaci, via D’Amelio, Roma, Firenze e Milano) per tentare di raddrizzare una situazione compromessa. Ma sarà inutile, il seme del maxiprocesso era ormai germogliato e le condanne ottenute da Giovanni Falcone e dal suo pool rimarranno un punto di non ritorno che neppure la folle scelta di Totò Riina ha recuperato. Purtroppo questa vittoria è costata cara: le vite di Falcone, di Francesca Morvillo, di Paolo Borsellino e degli uomini delle scorte. Le vite innocenti dei morti di Firenze e Milano.