il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2016
Quelle 110 pagine che sanno di fegati e muscoli e brandelli ammuffiti che ti fanno pensare: non mangerò mai più un hamburger in vita mia. Un libro di AnanPaula Maia
Ci sono sensazioni di disgusto che arrivano con una folata di vento. Si sente un odore putrido e vomitevole, poi il naso riprende a respirare aria più pulita e la sensazione svanisce.
In Di uomini e bestie di Ana Paula Maia, edito da La Nuova Frontiera, quell’odore nauseabondo persiste per 110 pagine, così che tutto il romanzo sa di fegati e muscoli e brandelli ammuffiti e viscere sul pavimento. Ma anche dopo averlo letto (nella lingua veloce e spigolosa della traduzione di Marika Marianello), quell’odore continua e i giorni successivi ti viene da pensare: non mangerò mai più un hamburger in vita mia. Perché Ana Paula Maia ci porta dentro un mattatoio brasiliano, in condizioni lavorative penose, ci fa vedere la vita di questi signor Nessuno, e il trattamento schifoso della carne che poi finirà sui nostri piatti o nei nostri panini.
Edgar Wilson (il protagonista con un evidente riferimento al maestro dell’orrore Edgar Allan Poe, autore anche di un racconto intitolato William Wilson) è uno storditore: la mattina si alza, va a lavorare e per tutto il giorno colpisce con un manganello le fronti di tori o di mucche che svengono ai suoi piedi e non soffriranno durante il dissanguamento. Con il suo metodo tramortisce quotidianamente sessanta, ottanta, cento esemplari.
Intorno a lui una sequela di personaggi tarantiniani si alternano sulla scena: Zeca, “un ragazzetto di 18 anni, disturbato” che sogna di fracassare le teste degli animali “sporcandosi il viso con gli schizzi di sangue”; Bronco Gil, l’indios con un occhio di vetro, fissato con i predatori che potrebbero attaccare le mandrie e maniaco degli appostamenti notturni per sorprendere cinghiali e puma; Burunga, che per raccogliere i soldi necessari agli occhiali della figlia scommette fatalmente sulle proprie capacità di apnea in acqua; Santiago, l’altro storditore che mangia funghi cresciuti sullo sterco delle vacche e poi gira allucinato di notte con finte orecchie di renna.
Sono tutti uomini al confine della bestialità, assimilabili agli animali destinati alla morte: al mattatoio del signor Milo arrivano vacche libanesi malate, mescolate a mucche israeliane, pecore terrorizzate che preferiscono inginocchiarsi in attesa di venire sgozzate, e soprattutto bovini fortissimi, indomiti, pazzi, che desiderano soltanto gettarsi nella scarpata, in un fiume invaso dal sangue, con l’acqua salata e cadaveri di pesci a galla.
“Finché ci sarà una vacca in questo mondo, ci sarà sempre qualcuno disposto a ammazzarla”.
“E qualcuno disposto a mangiarsela”.
Questo stralcio di un dialogo nel finale del romanzo centra due questioni fondamentali.
La prima riguarda la produzione della carne, le condizioni vergognose, prive di igiene e di intelligenza dei centri d’allevamento intensivo e degli scannatoi, ma anche la predisposizione dell’uomo a esercitare la propria violenza e dominazione sugli animali. In quest’ambito si è scritto già molto, basti ricordare Se niente importa di Safran Foer o Gabbie vuote di Tom Regan: saggi e reportage di grande valore scientifico che spiegano il senso di una scelta come essere vegetariani o vegani in modo razionale, mentre Ana Paula Maia con la sua narrativa intacca molto di più la sfera sensoriale, per l’appunto i nostri stomaci e i nostri nasi.
L’altra questione, forse ancora più interessante, è sul senso di responsabilità e connivenza. Pur consapevoli dell’impatto ambientale e degli effetti collaterali assolutamente negativi della produzione, riusciremmo a non mangiare carne? Indipendentemente dalle condizioni di sfruttamento lavorativo, produrre un chilo di manzo causa l’emissione della stessa quantità di anidride carbonica di un’auto che percorre duecentocinquanta chilometri. Eppure preferiamo dislocare il nostro senso di colpa alle grandi catene di produzione e ai lumpenproletari che fanno il lavoro sporco da McDonald’s, Burger King e KFC.
Non siamo riusciti a rinunciare alla carne, neanche quando trent’anni fa si diffuse il virus della mucca pazza. Nel 1986 ci fu il primo caso nell’Hampshire e da allora contrassero il morbo quasi duecentomila capi in Gran Bretagna e, a causa della trasmissione anche all’uomo, lo spettro di una pandemia si aggirò per l’Europa. Abbiamo superato il timore del BSE, così come abbiamo già rimosso i proclami dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro che inseriva carni rosse, salami e insaccati fra gli agenti cancerogeni.
Il richiamo del sangue, della carne resta più forte.
“L’uomo, grazie alla civiltà, è diventato più sanguinario, in modo più disgustoso di prima”, Dostoevskij descriveva magnificamente questa consapevolezza dell’errore e l’incapacità di fare la scelta giusta nelle Memorie del sottosuolo (trad. Paolo Nori): “Adesso noi consideriamo l’essere sanguinari una porcheria, ma facciamo lo stesso questa porcheria, anche più di prima”.