il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2016
«Che diranno i nostri elettori?». La domanda che nessuno si pone
Quando si parla di voltagabbana, trasformisti e riciclati che saltano da un partito all’altro come Tarzan di liana in liana, nessuno si pone la domanda più naturale: “Che diranno i nostri elettori?”. I motivi sono tre. 1) Molti elettori non dicono nulla, perché sono indifferenti, o rassegnati al peggio, o perché gli sta bene così. 2) Alcuni elettori direbbero volentieri qualcosa, ma non sanno a chi: da 10 anni non eleggono più nessuno, visto che prima col Porcellum e ora con l’Italicum e la controriforma del Senato i parlamentari sono nominati dai capi partito: infatti non vanno a cercarsi gli elettori perché rispondono esclusivamente a chi li ha piazzati in lista. 3) Chi dovrebbe ascoltare gli elettori li considera carne da cannone, gente da comprare con qualche spicciolo o favore o posto o promessa alla vigilia delle urne, magari da ricattare col solito trucchetto del “meno peggio” (l’altroieri: “Votateci, se no vincono i comunisti”; ieri: “Votateci, se no vince Berlusconi”; domani: “Votateci, se no vince Grillo”), e da ignorare per cinque anni fino alle elezioni successive.
Noi, checché se ne dica, abbiamo il massimo rispetto per gli elettori del Pd, non foss’altro che per gli immani sacrifici a cui li ha sempre costretti il loro partito. Han dovuto digerire i D’Alema, i Violante, i Veltroni, gli Amato, i Fassino, i Rutelli, i Bersani, i Napolitano, i Letta e ora Renzi con i loro inciuci con Berlusconi & C. Han votato per un programma e poi han visto regolarmente attuare quello degli avversari, per sconfiggere i quali si erano mobilitati trascinandosi alle urne. Si son sentiti promettere legalità, onestà, trasparenza, competenza, leggi anticorruzione, antievasione, antitrust, anti-conflitto d’interessi, una Rai senza partiti, una scuola e una sanità finalmente pubbliche, diritti e unioni civili all’insegna della laicità, un ascensore sociale fondato sulla meritocrazia, la difesa dello Statuto dei lavoratori e della Costituzione più bella del mondo, salvo poi ritrovarsi l’esatto opposto. Hanno combattuto, anche in piazza, il berlusconismo, il cuffarismo, il clericalismo, il trasformismo, il familismo per poi scoprire che si praticavano anche in casa loro. Due anni fa avevano riposto le residue speranze in Renzi, che faceva proprie quelle parole d’ordine con una freschezza e credibilità, non avendo partecipato allo sfascio dell’ultimo ventennio. Perciò lo perdonarono quando salì a Palazzo Chigi contraddicendo se stesso, senza passare per le urne: speravano in una vera svolta.
La svolta non consisteva, come oggi raccontano lui e i suoi turiferari, nel “fare le cose”: tutti i governi han “fatto le cose”, peccato che fossero sbagliate. La svolta promessa (e attesa) era un nuovo modo di fare politica. Il Renzi che stravinceva le primarie e poi le Europee si presentava come un Grillo meno agitato e confuso. Quello che andava a Porta a Porta il 14 gennaio 2010 e strapazzava tre ex Pd appena passati all’Udc: Paola Binetti, Enzo Carra e Dorina Bianchi. E, rivolto alla Binetti in studio, tuonava sacrosantamente: “La posizione tua, di Carra e altri è rispettabile, ma dovevate avere il coraggio di dimettervi dal Pd e dal Parlamento, perché non si sta in Parlamento coi voti presi dal Pd per andare contro il Pd. È ora di finirla con chi viene eletto con qualcuno e poi passa di là. Vale per quelli di là, per quelli della sinistra, per tutti. Se c’è l’astensionismo è anche perché se io prendo e decido di mollare i miei, mollo i miei – è legittimo farlo, perché non me l’ha ordinato il dottore – però ho il coraggio anche di avere rispetto per chi mi ha votato, perché chi mi ha votato non ha cambiato idea”. E un anno dopo, il 22 febbraio 2011, ribadiva il concetto: “Se uno smette di credere in un progetto politico, non deve certo essere costretto con la catena a stare in un partito. Ma, quando se ne va, deve fare il favore di lasciare anche il seggiolino”.
Ora, dall’Alpi a Scilla, giungono notizie di berlusconiani, cuffariani e lombardiani (nel senso non di Riccardo Lombardi, leader del migliore Psi, ma di Raffaele Lombardo, ex governatore siciliano condannato in primo grado per mafia) sgomitanti davanti alle sedi del Pd per tesserarsi. E non incontrano dei buttafuori che li cacciano, ma dei buttadentro che spalancano loro le porte. Il tutto in vista delle “parlamentarie” che selezioneranno i capilista bloccati alle elezioni politiche (così che siano tutti di stretta obbedienza renziana). E “il rispetto per chi li ha votati”? E “il dovere di lasciare il seggiolino”? Acqua passata.
Ora Renzi sponsorizza come sindaco di Milano un uomo della Moratti, Giuseppe Sala. E ha appena imbarcato nel governo una vagonata di riciclati che cambiano partito con i pedalini. Dall’eptapartita Dorina Bianchi al quadripartito Totò Gentile al vendolian-renziano Gennarino Migliore: tutti e tre ansiosi di governare col partito che combattevano nel 2013; i primi due addirittura impegnati a bloccare uno dei punti-chiave del programma del Pd: le unioni civili. Il che, paradossalmente, riempirà di entusiasmo chi li ha votati (a destra), mentre getterà gli elettori Pd nella rabbia e nell’impotenza di chi, non avendo eletto nessuno, non può chieder conto a nessuno. Perciò Il Fatto contrasterà con tutte le forze l’Italicum e la schiforma del Senato, che perpetuano il Parlamento dei nominati. Al nostro fianco, anche se non c’è più, avremo Giorgio Gaber: “Tu voti un partito che sceglie una coalizione che nomina un candidato che tu non sai chi è e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E, se lo incontri per la strada, ti dice giustamente: ‘Lei non sa chi sono io’”.