Quattroruote, 4 febbraio 2016
Contro l’idea imperante che le automobili siano brutte, sporche e cattive
Quando, nel febbraio del 1956, Gianni Mazzocchi fondò Quattroruote, l’automobile era metafora d’affermazione personale, di affrancamento dalla mediocrità, compendio mirabile d’indipendenza e punto d’arrivo sociale. Sessant’anni esatti dopo, l’automobile, smarriti in gran parte dell’opinione pubblica i propri valori positivi, è l’ospite malsopportato del consesso civile. E il clima, se possibile, va costantemente peggiorando. Ha infatti ragione Sergio Marchionne quando afferma che «continuando a parlare di problemi legati a connettività, auto a guida autonoma ed emissioni, abbiamo creato un cocktail letale: ciò porta a una naturale incertezza». Pur rimanendo l’incognita di chi sia questo “noi”, il messaggio è del tutto condivisibile: tra la confusione che deriva dai rivoluzionari cambiamenti in atto nell’industria e la voragine di credibilità causata dall’affaire-Volkswagen, il comparto sconta un pregiudizio ormai granitico.
Se ne è avuta riprova il 14 gennaio, quando Fiat e Renault sono precipitate al centro delle cronache per vicende senza dubbio diverse, ma egualmente paradigmatiche di un’atmosfera da caccia alle streghe. La Fiat-Chrysler è finita sulle prime pagine dei media perché accusata da due concessionari dell’Illinois di aver corrotto alcuni dealer Usa per indurli a falsificare i dati di vendita. Fossimo in altri ambiti, l’addebito sarebbe stato derubricato ad abituale, per quanto spiacevole, dialettica fra costruttore e rete. Invece l’insinuazione (alla quale la Casa non aveva avuto modo di replicare in via formale) è diventata subito colpa già passata in giudicato. Risultato, azioni del gruppo in picchiata verticale, a Milano come a New York, per una vertenza legale neppure cominciata. Di altro tenore, invece, la vicenda che ha visto protagonisti i francesi. La mattina esce un “take” di France Presse che riporta la notizia di perquisizioni della polizia presso due centri tecnici della Renault. Il lancio viene ripreso da Bloomberg, che vi aggiunge la conferma delle visite da parte del sindacato Cgt. Il riflesso delle Borse è pavloviano: se c’è di mezzo la polizia, significa che la Renault è al centro di un nuovo dieselgate. Panico. Tutti si precipitano a vendere al buio. Prima che Ségolène Royal, ministro dell’Ambiente, chiarisca come le indagini non abbiano dimostrato l’utilizzo di alcun defeat device, ma soltanto indicato sforamenti dei limiti degli NOx, il disastro è compiuto: in poche ore, il gruppo di Parigi arriva a bruciare il 20% della capitalizzazione di Borsa, trascinando con sé l’intero settore.
Ora, il problema esiste, tant’è che la Renault dovrà richiamare oltre 15 mila vetture. Però rimane preoccupante che una Casa perda – per la semplice ipotesi di un intervento sulle emissioni – un valore percentualmente analogo a quanto lasciato sul terreno dalla Volkswagen il giorno dopo l’ammissione di una truffa planetaria. Lo è perché dà la misura della psicosi che oggi circonda questo settore, nonostante la vivacità dimostrata nell’affrontare una complessa transizione verso il futuro. Preconcetti negativi che, in ambiti a noi più vicini, sono testimoniati dalla crociata anti-auto di tanti Comuni italiani quando si è trattato di affrontare il problema smog tra dicembre e gennaio. Targhe alterne e blocchi totali sono misure che non servono a nulla, come si sa da tempo e come poi hanno ribadito i dati delle centraline: ciononostante, sindaci e assessori non sfuggono all’istinto primordiale delle inutili e vane delibere di limitazione al traffico. Si vuole davvero affrontare il problema dell’inquinamento urbano? S’investa nel ricambio del parco circolante, fra i più anziani d’Europa, nella creazione di un network di stazioni di ricarica elettrica, nell’integrazione reale fra trasporto privato e pubblico. Altrimenti sarà sempre e soltanto emergenza.