la Repubblica, 4 febbraio 2016
La Regina Elisabetta sta rimanendo sola col suo accento aristocratico
In una delle sue battute più felici, una volta il principe Carlo affermò che la lingua più parlata del pianeta non è l’inglese bensì il “broken English”, l’inglese sgrammaticato, storpiato, imperfetto, parlato dalle masse di tutto il mondo. L’inglese perfetto, viceversa, in questo paese è sempre stato il “Queen’s English”, come viene chiamato quello parlato dalla regina, in senso più ampio dalla famiglia reale (Carlo compreso) e in generale dall’aristocrazia britannica: una lingua raffinata, musicale, tagliente, sinonimo di educazione elitaria e ambiente “posh”. Senonché sempre meno gente parla inglese con accento regale, perfino tra i Windsor: studiando su filmati d’archivio l’evoluzione della sua pronuncia, un autorevole linguista si è accorto che neppure Elisabetta II parla più a quel modo. «I toni cristallini del passato hanno ceduto il posto a un’inflessione più popolare», afferma Jonathan Harrington, specialista della Ludwig Maximilian University. Invece del “Queen’s English”, dalla bocca di Sua Maestà esce spesso un inglese che la Bbc definisce “aristo-cockney”, misto di dizione aristocratica e dialetto dell’East Side londinese, un ibrido più comprensibile e meno snob.
L’accento, in Inghilterra, era notoriamente il mezzo più sicuro per identificare non solo la provenienza geografica (come succede in Italia) ma pure il livello sociale di chi parla, come bene illustra My Fair Lady, il delizioso film di George Cukor del 1964 – ispirato dal Pigmalione di George Bernard Shaw – in cui il professor Henry Higgins (interpretato da Rex Harrison) si sforza di insegnare l’inglese delle classi elevate alla fioraia Eliza Doolittle (Audrey Hepburn). In quella aristocratica dizione, per esempio, una parola come “poor” (povero) suona più o meno “poo-hu”; e “lost” (perduto) suona all’incirca come “law” (legge). Ma due fenomeni hanno gradualmente tolto smalto all’accento aristocratico.
Uno è che a Londra le cosiddette classi elevate non sono più quelle di una volta: nella classifica annuale del Times sui mille più ricchi residenti in Gran Bretagna, i primi posti sono occupati da magnati indiani, petrolieri russi, sceicchi arabi, personaggi che non hanno certo imparato l’inglese a Buckingham Palace.
L’altro è che Elisabetta, quando salì al trono oltre sessant’anni fa, aveva scarsi rapporti con i “commoners”, i comuni mortali o plebei che dir si voglia: il primo ministro che riceveva settimanalmente a palazzo reale apparteneva come lei alla classe dirigente, uscita dalle stesse scuole private e da famiglie sovente imparentate fra loro. Con il passare del tempo, tuttavia, anche i premier hanno avuto un’estrazione più popolare, da Harold Wilson a Margaret Thatcher, figlia di un droghiere, e in più la regina ha allargato i suoi incontri a un maggior numero di sudditi al di fuori dell’aristocrazia, facendosi contagiare dal loro accento. Veniamo inevitabilmente influenzati dal linguaggio dei nostri interlocutori, avvertono gli psicologi, un effetto a cui non sfuggono nemmeno i sovrani.
È come se il professor Higgins desse lezioni all’incontrario, insegnando ai nobili la lingua del popolo, osserva Jonnie Robinson, linguista della British Library. Con effetti talvolta comici o paradossali: il principe William accentua volutamente una pronuncia popolare per apparire più alla mano, mentre sua moglie, la “commoner” Kate Middleton, cerca di imitare quella aristocratica per adeguarsi alla parte di futura regina.
«Oggi giorno l’upper class si distingue solo dalla lingua, non essendo né più ricca, né meglio istruita, né più pulita di tutti gli altri», si lamentava a metà del Novecento l’aristocratica Nancy Mitford nel libro Noblesse oblige: ebbene, ora non si distingue più neanche dalla lingua. Con l’eccezione dell’upper class nello sceneggiato cult Downton Abbey, naturalmente, forse una delle ultime occasioni di ascoltare, nella versione originale, un “Queen’s English” parlato come si deve.