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 2016  febbraio 04 Giovedì calendario

Vent’anni senza Gavazzeni, direttore d’orchestra anarchico e rispettoso

Il teatro, la Scala, deserto, le poltrone vuote, i buchi scuri dei palchi, aveva un fascino malinconico e misterioso quella mattina di vent’anni fa mentre sul palcoscenico l’orchestra diretta da Riccardo Muti sonava la Marcia funebre dalla terza Sinfonia di Beethoven, l’Eroica, in onore del maestro Gianandrea Gavazzeni. Era morto due giorni prima, il 5 febbraio 1996, e la sua bara, posata nel foyer, sembrava davvero il simbolo non soltanto della fine di un uomo che aveva profondamente amato quel luogo ma anche della fine di un secolo, il tragico Novecento in cui aveva vissuto lasciando il suo segno di grande artista, non conformista, rispettoso degli altri fino allo spasimo.
Anche Toscanini, tanti decenni prima, nel 1957, aveva avuto in morte gli stessi onori. Era stato Victor De Sabata, allora, a dirigere la Marcia funebre. E nel 2014 toccherà a Daniel Barenboim il triste dovere in morte di Claudio Abbado: quella sera di gennaio le porte del teatro erano state spalancate e una folla muta e commossa aveva ascoltato nella piazza il requiem della sua città al maestro indimenticato.
Non poteva che apparire anomalo e persino sovversivo alla società codina del tempo un famoso direttore d’orchestra che si definiva così: «Un anarchico sedentario che non va a gettar bombe, ma che non ha bisogno di leggi, tanto è rispettoso degli altri»; «Uno che detesta gli inquisitori e i linciaggi»; «Uno che sta sempre dalla parte dei perdenti»; «Un uomo di passioni, perché anche lo scetticismo è una passione, lo schermo della delusione»; «Un uomo con l’ossessione dello spirito di libertà e di indipendenza».
Gavazzeni era nato a Bergamo nel 1909. La sua fu una generazione fervida nella storia d’Italia, Bobbio, Leone Ginzburg, Arnaldo Momigliano, Pavese, Vittorini, Dionisotti, Garin. I suoi amici di sempre furono Fedele D’Amico, Massimo Mila, Goffredo Petrassi. La musica, la letteratura e anche la politica furono le sue passioni. Figlio di un deputato del Partito popolare, vicino a De Gasperi, antifascista, ricordava il «discorso dei bivacchi» di Mussolini – aveva 13 anni, studiava al Conservatorio romano di Santa Cecilia – ricordava anche il discorso del 3 gennaio 1925 che aboliva le libertà politiche e instaurava la dittatura. Suo padre, avvocato, aveva dovuto lasciare Bergamo e lavorava in un modesto studio a Milano all’angolo di piazza Fontana. Quegli anni gli pesarono sul cuore per tutta la vita.
Era un musicista colto – non è sempre così – al di là delle opere e dei concerti che aveva diretto. Lettore onnivoro, la sua biblioteca nella grande casa di via di Porta Dipinta, a Bergamo, faceva venire in mente la meravigliosa biblioteca del monastero di Strahov, a Praga. Amava la letteratura, si considerava un figlio di «Solaria», la rivista fiorentina di Carlo Carocci e poi di «Letteratura», di Alessandro Bonsanti. Aveva scritto libri di memoria e di mordente presenza nella «sua» musica, Le campane di Bergamo, Non eseguire Beethoven, La bacchetta magica e, nel 1992, da Einaudi, Il sipario rosso, il diario di un quarto di secolo, dal 1950 al 1976, sul modello di André Gide, una miniera di fatti, di personaggi, i suoi mondi, i teatri – la Scala, Salisburgo, Bayreuth – i camerini, le trattorie, i grandi alberghi di ogni continente, le fanatiche del melodramma, melomani pazze, i tenori e i baritoni di cui non aveva una grande opinione, «strumenti vocali», i soprano di cui, invece, era un ammiratore morbido e indulgente.
Il maestro era scintillante, spiritoso, narratore orale di storie e storielle quando parlava con gli amici e sorrideva con quei maliziosi occhi azzurrini e verdi. Ma nei suoi scritti era sempre attento a non fare pettegolezzi, lui che ne avrebbe potuto riempire enciclopedie. Si considerava un teorico della reticenza e della dissimulazione onesta, oltre che dell’incoerenza.
Direttore d’orchestra nei maggiori teatri del mondo, i grandi maestri, De Sabata, Gui, Karajan, Kleiber, lo consideravano uno di loro. Toscanini era un idolo, l’aveva visto tante volte dirigere e incontrato spesso all’Isolino di San Giovanni sul Lago Maggiore, luogo incantato. Gavazzeni aveva diretto le grandi cantanti, la Simionato, Renata Scotto, Mirella Freni, Leyla Gencer. E la Callas, con quella «voce interna soltanto sua»: l’aveva diretta nell’ Anna Bolena di Donizetti, con Visconti, e nel Ballo in maschera di Verdi, un memorabile 7 dicembre 1957 alla Scala dove aprì una decina di stagioni.
È l’Ottocento il suo secolo. Il grande Verdi, ma anche il giovane Verdi, Puccini della Manon Lescaut e della Tosca, il primo Verismo. Era l’uomo meno retorico della terra, Gavazzeni, odiava «l’estetica delle vette», l’ascetica musicale, la musica vista come strumento di elevazione morale, la religione della musica. Negli ultimi anni si era intristito, amaro. Temeva per le sorti del mondo. La manzoniana Storia della colonna infame era diventata il suo libro prediletto.