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 2016  febbraio 03 Mercoledì calendario

Vent’anni in compagnia del Foglio. Il quotidiano che è riuscito a far crescere anche un sessantenne

Quando giorni fa seppi che il 30 gennaio 1996 era uscito il «Numero 1, Anno 1» del Foglio, improvvisamente ricordai che quella data mi era cara: aveva cambiato per sempre la mia vita. Ero Ceo di una multinazionale, vivevo a Londra, e proprio quel giorno mi fu comunicato il licenziamento che però sarebbe diventato operativo solo 6 mesi dopo, poco prima della quotazione a Wall Street, dovevo mantenere il segreto e continuare a gestire l’azienda come nulla fosse, concludendo il mio piano strategico quinquennale. Obbedii.
Il giorno dopo ricevetti la prima copia di un giornale nuovissimo, era il Foglio, da allora non lo abbandonai più: ero diventato un «Fogliante» in servizio permanente. Grazie a quell’atto avrei avuto una nuova vita, sarei tornato un «principiante», lo status magico al quale noi uomini siamo destinati. Con una lettera personale ringraziai il mio azionista per aver preso quella decisione che solo all’apparenza mi danneggiava, in realtà mi privilegiava. Cambiai costume e mi tuffai nel futuro, il Foglio mi accompagnò.
Da quei giorno, sono passati 20 anni. Mi sono riletto le tre pagine del primo numero (la quarta era una pubblicità della Sartoria Luigi Bianchi di Mantova), capisco perché allora ne ero rimasto (positivamente) sconvolto. Come lo ero stato nel ’76 per il primo numero di Repubblica, anche se mi ci volle poco per capire che sotto la vernice liberale, era semplicemente l’organo di un azionismo riverniciato. Il Foglio in questi vent’anni non solo non mi ha mai tradito, ma mi ha fatto crescere, cosa non banale per un sessantenne (di allora). E c’è riuscito senza che io ne condividessi, se non in parte, la linea politica, e men che meno i suoi frequenti «innamoramenti». Parlo da lettore, perché come giornalista il mio mondo è quello di ItaliaOggi sul quale scrivo.
In quelle tre pagine del 1996 convivono un numero impressionante di notizie (selezionate con arte) e dei commenti che hanno ancora oggi una freschezza straordinaria, tipica dei prodotti artigianali. I dati economici negativi della Germania di Kohl (deficit al 3,5%, Pil all’1,5%, 4 milioni di disoccupati) vengono inseriti nel più ampio scenario della crisi del modello renano. Il Premier Major si augura un rinvio oltre il 2000 del passaggio alla moneta unica, mentre Londra sta diventando la capitale multietnica del mondo. L’Olivetti di Carlo De Benedetti tenta di salvarsi aggrappandosi ai telefoni pubblici della Stet, punta sui media (Espresso-Repubblica), sulla politica, sul soccorso rosso dei sindacati (una tendenza che nel tempo si farà pioggia).
Ma la vera ricchezza che connota il Foglio «Numero 1, Anno 1» la trovi nelle pagine 2-3. Una strepitosa intervista a Lucio Colletti marchia questo primo numero. In appena 6 mila battute, stimolato da un geniale Giuliano Ferrara, l’ex filosofo marxista, fattosi liberale, descrive uno scenario, certo datato anni ’90, ma che è profeticamente quello di oggi. La Cina che lui descrive, come un comunismo che evolve verso un fascismo caratterizzato da una società apparentemente di mercato, in realtà fortemente autoritaria, è esattamente quella di oggi. Ciò che non poteva prevedere è il percorso inverso che l’Occidente avrebbe intrapreso sotto la guida di una Classe Dominante fattasi via via tecno-fascio-algoritmica. Il titolo dell’intervista, perfetto, vale tuttora: «Lamento per un’impossibile Italia liberale».
C’è una sola lettera al direttore, del mitico Gianni Baget Bozzo, che smantella, da par suo, il mito di una Costituzione ideologica come la nostra. Per 15 anni sinistri radical-chic la trasformeranno in una reliquia laica, rovinandoci la vita con le loro chiacchiere finto illuministe sul tutto, cioè sul nulla, fino all’arrivo di Renzi, che con le sue slide plebee tapperà per sempre loro la bocca (sia benedetto).
Una grande innovazione del Foglio fu l’eliminazione delle firme dei giornalisti. Averle rimesse, anni dopo, fu un errore. Viviamo in un’epoca dove gli spazi di libertà si stanno riducendo sempre più, certe attività professionali hanno ragione d’essere solo se sono totalmente indipendenti. Giornalisti e magistrati (nessuno di noi è un eroe), dovrebbero essere protetti come i panda. Non pubblicare i loro nomi, seppur noti, aiuta, è inutile fingere, da anni sta crescendo l’autocensura, questo il pericolo che magistrati e giornalisti devono temere come e più di Zika.
Comunque amici del Foglio, grazie di cuore, continuate a crescere, a riprodurvi, una sola raccomandazione da fedele lettore e da collega: rifiutate l’utero in affitto.