il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2016
Ted Cruz, il cubano che parla di Dio per arrivare alla Casa Bianca
Ted Cruz li batté tutti nel marzo 2015: il senatore del Texas fu il primo ad annunciare ufficialmente la sua candidatura alla nomination repubblicana alla Casa Bianca per il 2016. Fino ad allora, nessuno aveva scoperto le proprie carte. E li ha di nuovo battuti tutti lunedì nell’Iowa, vincendo a sorpresa, ma non troppo, le assemblee di partito che hanno lanciato la stagione delle primarie americane. Cruz scese in campo alla Liberty University di Lynchburg, in Virginia, la più grande università cristiana degli Stati Uniti, il 23 marzo 2015, a poco meno di 600 giorni dall’Election Day dell’8 novembre 2016.
Una carriera politica, la sua, non molto densa: procuratore generale del Texas dal 2003 al 2008, tornò, dopo, a fare l’avvocato, la professione per cui ha studiato a Princeton e ad Harvard, due università della Ivy League. Prima del 2003 e dopo il 2008, è stato consulente legale di politici come George W. Bush, governatore del Texas e poi presidente degli Stati Uniti, e John Boehner, deputato dell’Ohio, dal 2007 leader della minoranza repubblicana alla Camera e dal 2011 al 2015 presidente della Camera.
Quando, nel 2011, Kay Bailey Hutchinson, senatrice repubblicana del Texas per vent’anni, lasciò l’incarico, Cruz si candidò e vinse. In due anni al Senato di Washington, s’è fatto più conoscere che apprezzare: non è simpatico e non suscita solidarietà fra i colleghi che, per ora, non l’appoggiano nella corsa alla nomination.
Sulla candidabilità di Cruz, pesa un punto interrogativo, che Donald Trump di tanto in tanto rigetta nello stagno delle polemiche: il senatore è nato nel 1970 a Calgary in Canada, dove il padre, Rafael Bienvenido, un esule cubano arrivato negli Usa “con un centinaio di dollari in tasca” – racconta lui stesso –, lavorava per un’industria petrolifera. Ted visse in Canada per quattro anni, poi la famiglia si trasferì a Houston.
Un discorso di 21 ore contro l’Obamacare
La Costituzione statunitense prevede che i candidati presidenti (oltre ad avere almeno 35 anni ed essere residenti negli Usa da almeno 14 anni) siano “cittadini (americani) naturali dalla nascita” (natural born citizen). I sostenitori di Cruz, e molti degli esperti, ritengono che il requisito sia rispettato, perché la madre del senatore, Eleanor Elizabeth Wilson, di origini italiane e irlandesi, era del Delaware: grazie a lei, Cruz era cittadino americano fin dalla sua nascita e rispetterebbe, quindi, il dettato costituzionale.
La Corte Suprema non s’è mai espressa su questo tema: ci fosse una contestazioni, l’ultima parola sarà sua. “Mi candido alla presidenza” perché “voglio riaccendere la promessa americana”: con queste parole, Cruz, 45 anni, di appena cinque mesi più anziano di Marco Rubio, lanciò la sua campagna. Vicino al Tea Party, scese in lizza parlando della sua fede religiosa e delle sue radici cubane e volle farlo proprio nel quinto anniversario dell’Obamacare, la riforma sanitaria contro cui s’è battuto e ancora si batte –celebre un suo discorso maratona di 21 ore in Senato-: a ogni dibattito televisivo, promette di cancellarla.
“Per troppi americani la promessa dell’America sembra sempre più distante”, dice nei suoi comizi. E continua: “Immaginate un presidente che renda sicure le frontiere; immaginate un’aliquota unica per il fisco; immaginate un presidente che non boicotti Netanyahu”, snocciolando implicite critiche al presidente Obama. È duro con gli immigrati illegali, tende a confondere come fa Donald Trump rifugiati e terroristi, è confusamente fautore di un nuovo isolazionismo pur atteggiandosi a falco. La scelta per l’esordio di un’università evangelica serviva a fare leva sull’elettorato cristiano tradizionalista e fondamentalista: “Oggi, circa la metà dei cristiani non votano: immaginate invece milioni di fedeli in tutta l’America che vanno ai seggi per votare i nostri valori”. Quel che avvenne nel 2000 e ancora nel 2004, con la doppia elezione di George W. Bush.
Un freno a immigrati e matrimoni gay
Il neo-candidato, oltre che per l’abolizione della Obamacare, non crede all’influenza umana nel cambiamento climatico e si batte contro i matrimoni omosessuali. Nell’iconografia della sua campagna, c’è la foto sul palco della Liberty University con la moglie Heidi in rosa e le figlie Carolina e Catherine, entrambe in fucsia. Heidi, una ex legale del Consiglio per la sicurezza nazionale alla Casa Bianca, ebbe una crisi di depressione quando, dopo il matrimonio, dovette trasferirsi a Austin, capitale del Texas, e alcuni media le attribuiscono un tentativo di suicidio. Ma le figlie rimisero le cose a posto: ora, Heidi lavora per Goldman Sachs, ma in aspettativa per stare vicino al marito. E quando il Washington Post se la prese, in una vignetta, con le due bimbe, disegnate come scimmiette, l’indignazione costrinse il giornale a ritirare il disegno. Cruz è progressivamente emerso, specie a partire dall’autunno, come il maggiore rivale di Trump, che considera “troppo progressista”: le parole chiave della sua campagna sono speranze, libertà e fede in dio; e, nonostante sia figlio d’un immigrato, non fa dell’accoglienza un suo credo. Il passo falso più grosso l’ha fatto quando criticò i newyorchesi: gli furono tutti addosso, Trump e Hillary per una volta insieme.