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 2016  febbraio 03 Mercoledì calendario

Tutti ad aspettare che l’Arabia Saudita tagli la produzione di petrolio. Ma il peggio deve ancora arrivare

Mentre il prezzo del petrolio continua a essere pericolosamente vulnerabile, nel mercato e tra gli analisti del settore si è diffusa l’idea che sia prossima un’intesa tra grandi produttori per tagliare la produzione – in modo da favorire una ripresa dei corsi del greggio. Negli ultimi giorni, questa idea ha consentito al prezzo del petrolio di riprendersi dai minimi toccati il 20 gennaio (circa 26 dollari a barile), cosa che ha spinto molti a pensare che il peggio sia ormai alle spalle. Tutto può essere, ma ci andrei cauto.
Una fase di analogo ottimismo si verificò nell’estate del 2015, quando il petrolio sembrava aver superato la fase più critica della sua ordalia. Anche allora, tuttavia, ammonii i lettori de Il Sole sul fatto che il peggio dovesse ancora venire (si veda Il Sole 24 Ore del 12-09-2015), e che probabilmente sarebbe arrivato proprio nel cuore dei mesi invernali – gennaio-febbraio – com’è effettivamente accaduto. Quell’ammonizione era una sorta di appendice alla prima analisi che realizzai per l’Università di Harvard nel 2012, in cui individuai la possibilità di un collasso dei prezzi del greggio a cavallo del 2015. Cito le previsioni passate perché le mie perplessità sulle speranze attuali del mercato si basano in gran parte sulle stesse ragioni che, anni addietro, mi fecero essere così negativo sull’andamento del greggio.
Nel mondo la produzione continua a crescere trainata da investimenti realizzati o avviati negli anni passati – quando il petrolio a 100 dollari e oltre era una sorta di droga che giustificava qualsiasi spesa. La legge degli investimenti petroliferi, tuttavia, è piena di insidie: una società che iniziasse a investire oggi per lo sviluppo di una campo petrolifero otterrà la prime produzioni tra sei, otto anni, o perfino oltre, a seconda della dimensione e della complessità del giacimento. Se nel frattempo i prezzi del greggio crollano, ma la società ha già speso gran parte di quello che doveva (e parliamo di miliardi di dollari), questa non si fermerà, perché vuole iniziare a recuperare parte di ciò che ha investito. Inoltre, quel giacimento produrrà per un arco di tempo molto lungo, per cui la società in questione ha sempre la speranza che i prezzi tornino a salire.
L’asincronia tra domanda, offerta, prezzi e l’inerzia ineluttabile degli investimenti già avviati sono stati all’origine del collasso petrolifero degli anni Ottanta e della caduta dei prezzi che stiamo vivendo oggi,
come di ogni altra caduta rovinosa dei prezzi del petrolio avvenuta nel corso del ventesimo secolo.
Al contrario, la domanda cresce troppo poco per riassorbire l’eccesso di produzione e di capacità produttiva che si sono accumulate, e i tassi di incremento che le sarebbero richiesti per imprimere una svolta alla debolezza del petrolio sono troppo alti rispetto alle possibilità reali: in altri termini, non basterebbe certo l’aumento della domanda di 1,5 milioni di barili al giorno (mbg) auspicato dall’Opec per riassorbire un eccesso produttivo di oltre 3 mbg, e un eccesso di capacità produttiva di circa 7 mbg.
Per questi motivi, non c’è dubbio che solo un sostanziale taglio della produzione mondiale potrebbe spingere di nuovo al rialzo i prezzi. Questa prospettiva, tuttavia, è molto più ardua di come la si presenta in questi giorni. Guardiamo nel dettaglio.
Tra i tre più grandi produttori del mondo – Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti – solo Riad fino a oggi ha limitato la produzione, mantenendo una capacità inutilizzata di oltre 2 mbg. Nondimeno, è continuamente accusata da tutti gli altri paesi petroliferi di produrre troppo: oltre al danno, anche la beffa. La Russia ha continuato a battere i record produttivi dell’era post-sovietica, gli Usa hanno toccato il picco produttivo nell’aprile del 2015: poi la produzione è scesa per ragioni di mercato – ma molto meno di quanto tutti si aspettavano. Il Canada, quarto produttore al mondo, ha da poco registrato il suo record storico di produzione, nonostante abbia i costi di marginali tra i più alti al mondo. E i due più grandi produttori Opec dopo l’Arabia Saudita, cioè Iraq e Iran? Dopo decenni di vicissitudini stanno riemergendo, e già nell’ultimo anno sono tra i paesi che hanno incrementato di più la loro produzione: tagliare adesso per loro è impensabile. Al contrario, soprattutto l’Iran sta facendo di tutto per crescere ancora. Perfino il Mare del Nord, un’area in declino produttivo da oltre 15 anni, nel 2015 ha visto crescere il proprio output petrolifero grazie a una gigantesca ondata di investimenti realizzata soprattutto tra il 2010 e il 2014.
Così, quando tutti parlano di possibile intesa tra produttori per tagliare qualcosa, il retro-pensiero di tutti i produttori corre sempre all’Arabia Saudita. È da lei che si aspetta il taglio salvifico, mentre tutti gli altri invocano tagli generici senza essere disposti a farne loro stessi. Riad ha già sperimentato questo clima ipocrita nella prima metà degli anni Ottanta, quando a fronte dei prezzi che continuavano a scendere (dopo i picchi dovuti agli shock petroliferi del decennio precedente), fu l’unico paese al mondo a tagliare la propria produzione, riducendola da oltre 8 mbg a poco più di 600mila bg in alcuni mesi del 1985. Frustrato da quella situazione, alla fine il Regno dei Saud decise di produrre tutto quello che poteva, e fu il collasso dei prezzi del 1986 (passato alla storia come contro-shock petrolifero).
I sauditi hanno la memoria lunga e non vogliono fare regali a nessuno, per cui non molleranno. Per questo, pur non escludendo nessuno scenario “a sorpresa”, mi sembra molto improbabile un’intesa a breve tra i kingmaker del greggio. Forse l’unica condizione perché questa si realizzi è che i prezzi del petrolio vadano verso nuovi minimi (sotto i $25 a barile?) per un tempo sufficientemente prolungato (almeno un mese o due). Solo allora tutti i grandi del petrolio si convincerebbero che sta a tutti loro – e non a uno solo – farsi carico della situazione. Per le stesse ragioni, tendo a pensare che il peggio – per il petrolio – debba ancora arrivare.