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 2016  febbraio 03 Mercoledì calendario

Il prezzo del petrolio è crollato di nuovo a 30 dollari. Questa volta è colpa dei pessimi conti di Bp e Exxon

Nemmeno nel 2010, l’anno del disastro nel Golfo del Messico, era andata peggio: i 6,5 miliardi di dollari di perdita con cui Bp ha chiuso il bilancio 2015 sono la spia più vistosa delle sofferenze delle compagnie petrolifere di fronte alla caduta di prezzo del barile. I risultati di ExxonMobil sono andati un po’ meglio, addirittura piuttosto bene sostengono alcuni analisti, che coi tempi che corrono avevano previsioni pessimiste. Ma la Major americana ha comunque più che dimezzato i profitti nell’anno (a 16,2 miliardi di dollari, l’utile netto è il minore dal 2002) e in Borsa è costretta a sopportare un inglorioso declino: quella che una volta era la maggiore società quotata del pianeta adesso è solo al quinto posto, superata nei giorni scorsi persino da Facebook.
Dall’estate 2014 le quotazioni del petrolio sono diminuite di oltre il 70%, fino ad un minimo di 27 dollari al barile in gennaio. Anche il rally della settimana scorsa si è rivelato effimero: col venire meno dell’illusione di un taglio di produzione da parte di Russia e Opec, anche gli acquisti sono spariti. Nelle ultime due sedute il barile ha perso circa il 10% e ieri il Wti è tornato a testare la soglia dei 30 dollari, un livello insostenibile per qualsiasi compagnia, nonostante i pesanti sacrifici già sostenuti in termini di riduzione dei costi (anche di personale) e degli investimenti: si stima che nel mondo siano già stati cancellati progetti per quasi 400 miliardi di dollari e che i licenziamenti nel settore siano già più di 250mila.
Ieri il conto è salito ancora. Bp taglierà altri 3mila posti di lavoro entro il 2017, stavolta nel downstream, dopo gli 8mila esuberi già individuati nelle attività di esplorazione e produzione. Exxon invece ridurrà addirittura di un quarto le spese in conto capitale, già calate del 20% l’anno scorso, portandole a 23,2 miliardi di dollari, il minimo da dieci anni. Non solo. Il gigante Usa, dopo averle ridimensionate, ha ora deciso di sospendere del tutto le operazioni di riacquisto di azioni proprie: ai tempi d’oro, quando effettuava con regolarità ricchi programmi di buyback, era arrivata a redistribuire fino a 13 miliardi di dollari l’anno agli azionisti.
Adesso, come ha sottolineato il ceo Rex Tillerson, occorre fronteggiare una «situazione sfidante». Nel quarto trimestre, mentre il prezzo del petrolio e quello del gas sul mercato americano crollavano di oltre il 40%, Exxon ha visto l’utile netto ridursi del 58% a 2,8 miliardi di dollari. Nelle attività estrattive negli Usa – dove la compagnia è il maggior produttore di shale gas – c’è stata una perdita trimestrale di 538 milioni.
Né Exxon né Bp rinunciano comunque ai dividendi. Nessuno compagnia del resto (ad eccezione di Eni) ha finora avuto il coraggio di toccarli, anche se con il crollo dei titoli petroliferi in borsa i payout ratio hanno ormai raggiunto livelli stratosferici, in alcuni casi addirittura a doppia cifra.
Il ceo di Bp, Bob Dudley, ieri si è detto pronto ad alzare con disinvoltura i livelli di indebitamento pur di non toccare la cedola, ora di 10 cents per azione. Eppure proprio il debito netto è uno dei parametri che spiccano (in negativo) nel bilancio della compagnia britannica. A fine 2015 era salito a 27,2 miliardi di dollari dai 22,6 miliardi del 2014. In rapporto al patrimonio è passato dal 16,7 al 21,6 per cento. Fino a ottobre la società giurava di voler mantenere il net debt ratio tra il 10 e il 20%, poi era passata all’obiettivo di contenerlo «intorno al 20%». Ora Dudley afferma che non lo renderebbe «nervoso» arrivare al 25%, anche se Standard & Poors’ ha appena messo il suo rating sotto osservazione per un probabile declassamento nelle prossime settimane. Stessa sorte è toccata del resto a Eni, Total, Repsol e Statoil, mentre Royal Dutch Shell il taglio del rating l’ha appena avuto, da AA- ad A+, il più basso nella sua storia.
Comunque lo si guardi, il bilancio di Bp è allarmante. Nel quarto trimestre il risultato è crollato, anche al netto di poste straordinarie e variazioni di magazzino: il cosiddetto “underlying replacement cost profit”, il parametro preferito dalle compagnie, si è ridotto del 91% a 196 milioni di $. Persino la raffinazione – che ha finora difeso i conti delle major – sta rallentando: l’utile di 1,2 miliardi è in linea con un anno fa, ma in calo del 48% rispetto al terzo trimestre e Bp si aspetta margini di raffinazione in calo nel trimestre in corso. Lo stesso allarme era arrivato anche dall’americana Chevron, che la settimana scorsa ha comunicato una perdita trimestrale di 588 milioni, il primo “rosso” dal 2002.
Bp, che ha cominciato prima degli altri a stringere la cinghia, per pagare i danni nel Golfo del Messico, non ha più grandi spazi di manovra per ridurre gli investimenti, ha ammesso il cfo Brian Gilvary: il capex, sceso da 23 a 19 miliardi di dollari nel 2015, resterà a 17-19 miliardi.