Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2016
L’Europa è sull’orlo dell’abisso per 130mila assegni familiari concessi dal welfare britannico a cittadini Ue residenti nel Regno di Elisabetta
L’Europa è sull’orlo dell’abisso per 130mila assegni famigliari e benefits similari concessi dal welfare britannico a cittadini Ue residenti nel Regno di Elisabetta. Tanti sono i contributi economici pubblici garantiti a lavoratori dell’Unione con regolare impiego a Londra. E, si badi bene, pagati non ogni anno, ma cumulativamente nel quadriennio 2009-2013. Il calcolo esatto dell’onere sulle casse del Tesoro non è stato fatto, ma sono quisquilie, per dirla alla Totò, nel quadro generoso della spesa sociale britannica. Così come quisquilie sono tutte le istanze collegate a Brexit – di cui il contenzioso sul welfare agli stranieri assegni famigliari inclusi resta formalmente il più delicato -, se le si guarda attraverso la lente dell’Europa di oggi. Anche dalla prospettiva di Londra che domani ospiterà la conferenza sulla Siria; o da quella di Roma che ieri ha ospitato il summit sulla Libia e la minaccia dell’Isis; o da Stoccolma e Copenaghen che seppelliscono l’ancestrale tolleranza nordica con raggelante creatività, fatta di deportazioni di massa e del pegno imposto a uomini in fuga; o da Atene che alle ansie, irrisolte, del suo destino nell’euro ha aggiunto ora il timore dell’esclusione da Schengen per presunta incapacità nella gestione dell’emergenza rifugiati. Siriani, iracheni, afghani che non sono, per chiarire, gli “immigrati” che più teme Londra. Quelli che fanno paura, infatti, siamo noi, e i nostri vicini del Vecchio Continente, presunti approfittatori del welfare state britannico. Centrotrentamila assegni in quattro anni: non esattamente un salasso.
C’è qualcosa di tragicamente ridicolo nel constatare che mentre l’edificio comune europeo è scosso alle radici da crisi cicliche che ne frenano la capacità di autoriformarsi, a sospingerci un poco più in là, verso il precipizio, è la prospettiva di Brexit in nome di quattro capitoli del contenzioso identificati da Londra: sovranità, competitività, governance economica, libera circolazione e stato sociale.
Il premier David Cameron annuncia vittoria, vantando una sorta di game set and match seppure soggetto al “sì”, tutt’altro che scontato, dei partner chiamati a pronunciarsi nel vertice di metà febbraio. Se la bozza d’accordo benedetta dal presidente Ue Donald Tusk sarà ratificata senza sostanziali cambiamenti, il governo britannico lo sosterrà, battendosi per il “sì” al referendum sull’adesione che potrebbe già svolgersi alle fine di giugno.
Le sceneggiate del negoziato europeo ci impongono di scommettere su qualche nuovo colpo di scena, con le sembianze del pollice verso dei Paesi dell’Europa centro-orientale – i più ostili a limitare i benefici ai cittadini Ue nel Regno Unito – o nelle spoglie delle resistenze francesi alle tutele per la sterlina nel quadro del mercato interno. Qualcosa cambierà, anche se molto – e non sarà facile – dovrà essere tolto dalle nebbie di un’equivoca sintassi, a cominciare dall’incerta applicazione delle limitazioni all’assistenza sociale che potrebbero finire per ritorcersi anche contro i cittadini britannici espatriati o, peggio, contro i più giovani.
La sostanza è però scritta e l’accordo non è una vittoria di David Cameron sull’Europa, reggendosi sulla consapevolezza che Londra ha ottenuto solo quanto era possibile ottenere entro margini stretti. Pragmatica come sempre, la Gran Bretagna, s’è resa conto di potere giocare solo entro il perimetro dato e ha abbandonato presto l’idea di un’immediata revisione dei Trattati, risolvendosi ad accettare formule «legalmente vincolanti». La City ha ottenuto la garanzia che la sterlina – così come le corone nordiche o le altre valute Ue sopravvissute – non sarà penalizzato rispetto all’euro, ma l’immaginato veto di Londra sui passi futuri dell’integrazione dell’area a moneta unica s’è ridotto alla riaffermazione del Consiglio europeo come istanza ultima di futuri contenziosi. Londra si sfila, formalmente, dal destino di un’Europa sempre più coesa nonostante quell’«ever closer union» nei Trattati lo avesse preteso proprio Downing Street per evitare che apparisse la parola federalismo. Debole il capitolo sulla competitività, ridondante com’è di appelli – utili ma deboli – al taglio della burocrazia e alla deregulation. Più sostanziale sembra il passaggio della bozza che mira a ridare voce ai parlamenti nazionali: potranno bloccare iniziative della Commissione se le assemblee degli stati membri saranno capaci di creare un fronte pari al 55% del deputati dell’Ue. Non troppo agevole.
Buone riforme? Forse, alcune. Indispensabili riforme? Nessuna, per nessuno. Gran Bretagna compresa, David Cameron incluso che, per la seconda volta, s’è avventurato in un contenzioso politico delicato con straordinaria spregiudicatezza. La Scozia, lo ricordiamo, è ancora parte del Regno Unito quasi per caso, certamente per una manciata di voti. La Gran Bretagna, spinta al referendum sull’Unione dal suo premier, rischia un analogo destino, ad essere ottimisti. I sondaggi, infatti, continuano a puntare su Brexit. E lo rischia senza avere generato il magro bottino sperato dal suo premier, ovvero la riunificazione del partito conservatore, la pacificazione fra euroagnostici ed euroscettici – gli eurofan Tory sono esemplari rarissimi. Le voci che si alzano in queste ore confermano l’irritazione crescente per un’intesa che i fautori del Brexit considerano la semplice liquidazione del glorioso passato in cambio di un mediocre futuro.
Tutto bene se lo spettacolo finisse qui. Ci attende qualche altro brivido e poi l’atto finale del referendum nella consapevolezza che le conseguenze di un “no” non ricadranno solo sulla Gran Bretagna, né solo sulla collocazione di David Cameron nella storia del Regno, ma su tutti noi. Brexit è requisito per un massacro sulle ceneri di un’Europa prostrata. Per 130mila assegni familiari, o poco più.