La Stampa, 2 febbraio 2016
L’acciaio e la concorrenza sleale della Cina che fa infuriare l’Ue
Cecilia Malmström comincia con gli auguri per un felice anno della Scimmia e finisce chiedendo a Pechino di «prendere tutte le misure opportune per ridurre la sovraccapacità nazionale di produzione siderurgica», non senza annunciare perentoria che «la Commissione aprirà tre nuovi inchieste antidumping in febbraio».
È l’inizio di un’offensiva decisa, quello che la responsabile europea per il commercio affida a una lettera appena indirizzata al suo omologo cinese, Gao Hucheng. Il settore dell’acciaio soffre la congiuntura e la concorrenza sleale, migliaia di posti sono stati bruciati recentemente in Galles e altri sono a rischio in tutto il continente, non da ultimo in Italia. La pressione delle capitali si sta facendo forte. Bruxelles non intende restare a guardare.
La tempistica non è casuale. L’Ue deve pronunciarsi sullo statuto di economia di mercato alla Cina entro fine anno. Non c’è sintonia fra gli Stati, che ripropongono il duello fra Paesi a grande vocazione industriale e quelli che vivono maggiormente di commercio. Le posizioni si riflettono nell’esecutivo, dove gli uomini del presidente non hanno fretta, mentre la titolare di cattedra – pressata da belgi, francesi e italiani – vuole avanzare. Nell’ultima riunione tecnica del Team Juncker ha espresso l’orientamento di decidere in luglio. O in settembre.
Il tema vola oggi sul tavolo del vertice informale dei ministri del Commercio estero Ue per una messa a punto. Per l’Italia ci sarà Carlo Calenda (ieri a Bruxelles per una presa di contatto con la sua futura squadra) che, a una mesata dall’assumere l’incarico di rappresentante permanente presso l’Ue, sta facendo della questione acciaio e di quella cinese due cavalli di battaglia. Per la nostra economia, in effetti, sono dossier cruciali. I settori con misure antidumping cinesi – soprattutto ceramica, siderurgia e tecnologia – valgano 55 mila posti, a rischio se la protezione contro l’export della potenza asiatica dovesse venire meno.
Attualmente le barriere tariffarie Ue sono applicate in 52 casi e influenzano l’1,38% dell’import cinese. I settori europei più sensibili sono la chimica e la siderurgia, ma quest’ultima ha il fatturato più rilevante (29 miliardi), seguita dalla ceramica (13 miliardi). Sono comparti energivori, cosa che da noi è un handicap viste le regole per la tutela dell’ambiente. E non solo.
I servizi tecnici della Commissione hanno messo a punto un rapporto per favorire la decisione politica delle capitali. Nel testo viene sconsigliata la possibilità di opporre un rifiuto alla promozione dei cinesi: «Evidente il rischio di un ricorso all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) con richieste di compensazioni». Un’alternativa potrebbe essere il passaggio dall’antidumping alla difesa commerciale ordinaria senza atti mitiganti: questo ridurre il livello di protezione di 27 punti percentuali; i prezzi lordi dell’import calerebbero di 19 punti; l’export Ue salirebbe di 17-27 punti. La perdita di posti sarebbe compresa fra 30 e 77 mila unità; ma nel lungo termine, compreso l’indotto, si potrebbe arrivare a 211 mila.
La terza ipotesi di scenario dei tecnici della Commissione suggerisce di consentire lo status di economia aperta mantenendo delle protezioni per correggere le distorsioni che andrebbe negoziate con Wto e Pechino. «Difficile fare stime – scrive la Commissione -, ma l’impatto su citato potrebbe essere dimezzato».
Ora la parola passa ai ministri che dovranno vedersela anche con un rapporto dell’alleanza industriale Aegis, secondo la quale i posti a «rischio Cina» superano le trecentomila unità. Cecilia Malmström – nella lettera vista da «La Stampa» – punto il dito sul nodo siderurgico e parla di export dal colosso orientale salito del 50% e prezzi calati di altrettanto. «Molti impianti europei hanno chiuso di recente», accusa la svedese. Di qui le tre inchieste di febbraio e la promessa che «altre seguiranno». Una missione europea sarà a Pechino il 10 marzo e un secondo incontro si svolgerà il 18 aprile a Bruxelles. «Mi auguro che il negoziato proceda bene», scrive la Malmström. In caso contrario, si capisce, l’Unione non intende restare con le mani in mano. Non di questi tempi, non con questa crisi, non in questi settori.