La Lettura, 31 gennaio 2016
Il velo visto da una femminista dell’Ottocento, tra «pacchetti di biancheria sporca» e donne «divinamente enigmatiche»
«Sconvolgenti pacchetti di biancheria sporca». È la prima cosa che nota Hubertine Auclert, al suo arrivo al porto di Algeri nel 1888. Quei pacchetti sono corpi velati. Quando li vede muoversi, camminare, la madre del femminismo moderno scorge in essi «statue di sofferenza». La francese impara poi a vedere altro. Sotto gli abiti tradizionali le donne algerine le appaiono «affascinanti» e «divinamente enigmatiche»: perderebbero di certo «la loro prestigiosa bellezza se si strizzassero negli abiti scuri delle donne europee». Davanti a queste donne arabe sottratte alla vista, l’Occidente coloniale è al contempo disgustato e sedotto. La sfida è politica, come nota il generale Bugeaud, mezzo secolo prima: «Gli arabi ci sfuggono perché nascondono le loro donne ai nostri sguardi».
È questo il momento cruciale per comprendere perché il velo è divenuto così importante nell’identità islamica contemporanea. Se vogliamo capire, con il titolo del volume di Bruno Nassim Aboudrar, Come il velo è diventato musulmano (Raffaello Cortina), dobbiamo tornare alla colonizzazione post-ottomana dei Paesi musulmani. Il professore di estetica parigino colloca la questione del velo all’incrocio tra due mondi dall’opposto universo visuale. Nell’Occidente cristiano domina lo sguardo. Il precetto del velo per le donne è denso di teologia nella prima Lettera ai Corinzi di Paolo e nella patristica, ma cede nei fatti all’ansia di vedere. Il Dio cristiano, del resto, è ben visibile nell’iconografia e persino nei riti dell’elevazione e dell’ostensione, in cui l’ostia svela il mistero. Al contrario nelle società arabe, scrive Aboudrar, un musulmano «imparava a diffidare delle immagini, a disprezzarle e a farne un uso estremamente parsimonioso, o ancora meglio a rinunciarvi del tutto». Settanta veli di luce e tenebre proteggono l’uomo dalla vista di Dio, recitano le scritture islamiche, giacché «il bagliore del suo volto annichilirebbe senz’altro chiunque lo vedesse». Le moschee sono garanti dell’invisibilità di Dio; nelle tortuosità dei quartieri arabi tutto è costruito per frapporsi alla traiettoria della vista. Coerente con l’ingiunzione coranica agli uomini di abbassare lo sguardo e alle donne di velarsi, la prassi vestimentaria deve impedire al contempo lo sguardo e l’esibizione. Il velo, dunque, si mimetizza in un mondo dominato dall’ombra e dal nascondimento.
Quando Hubertine Auclert vede i «pacchetti di biancheria sporca», la modernità ottocentesca sta già travolgendo l’iconofobia islamica. Un regime visivo che ha retto per un millennio si va disarticolando, scrive l’autore, «sotto la pressione universalizzante delle norme visive occidentali, con tutta l’esigenza di chiarezza, nettezza, trasparenza – e presenza femminile – che tale pressione porta con sé». I dipinti, le fotografie e le cartoline coloniali dell’epoca nutrono nel pubblico europeo la «fantasia ossessiva dello svelamento», la curiosità «paterna e razzista» per le arabe pudiche e depravate. Alla spinta dei colonizzatori non si oppongono i riformatori della Nahda araba e delle Tanzimat ottomane, i quali anzi associano il risveglio di un islam modernizzato all’indipendenza delle nazioni e all’emancipazione di donne senza velo. È così per Kemal Atatürk in Turchia e Reza Scià in Iran negli anni Trenta, per la figlia del sultano del Marocco, che si merita, senza velo, la copertina di «Time» nel 1947, per Bourguiba in Tunisia negli anni Sessanta.
In società musulmane progressivamente invase dalle immagini, infine anche dalla tv, ci si accorge sempre più del velo. Il velo si rende visibile. Si oggettivizza. Esso non è più lo strumento invisibile in una pratica sociale coerente, ma diviene il simbolo della resistenza di un islam confuso. Le musulmane occidentali velate, infatti, intendono sottrarsi allo sguardo onnivoro della società in cui vivono ma in realtà, scrive l’autore, «si comportano come immagini» e addirittura, adottando il velo della propaganda islamista, estraneo alla tradizione maghrebina e turca, «imitano delle immagini». Per celebrare una religione senza figure, il velo si fa immagine e spettacolo: «Facendo vedere che si nascondono», osserva Aboudrar, «nascondono che si fanno vedere».
Spiazzava una femminista di fine Ottocento la coesistenza nel velo di miseria e bellezza, di oppressione e dignità. Ci spiazzano, oggi, queste donne che si celano nella nostra civiltà delle immagini per sfidarci.