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 2016  gennaio 31 Domenica calendario

Il posto fisso di Zalone e i tre trentenni di The Pills che sperano di non lavorare mai

Non molti lo hanno notato, ma il trionfo di Checco Zalone lancia obliquamente anche un nuovo protagonismo dei produttori, figure che erano tornate alla ribalta anche all’interno del cinema d’autore a partire dagli anni 2000 con l’ondata di Catleya e Fandango e che oggi stentano a trovare un’identità. Pietro Valsecchi, produttore anche cinematografico ma che nei decenni scorsi aveva fatto la propria fortuna soprattutto con miniserie e fiction Tv, ha lanciato nelle sale a dicembre Chiamatemi Francesco, di cui ha scritto il soggetto e che, pur distribuito in 600 schermi, ha racimolato pochino. Una prova di forza, in attesa di Zalone che, con la rincorsa delle sue 1500 copie, frantumasse ogni record nazionale (e i quasi 65 milioni sono in realtà molti di più, se si contano le sale non conteggiate nel Cinetel, che in larga parte programmavano anch’esse il film). 
Il produttore poi ha appena esordito nella narrativa con un’ambiziosa saga di 400 pagine, «un affresco epico di un tempo mitico e perduto» dice la pubblicità, pubblicato da Mondadori (Prima famiglia, pagg. 423, € 20,00). Il peso del produttore era ben esposto anche alla conferenza stampa romana del nuovo film, The Pills- Sempre meglio che lavorare. Che si propone come prodotto sperimentale, per traghettare al cinema delle strisce che hanno avuto una gran fortuna in rete. Ma che è andato malissimo, un po’ per l’eccessiva connotazione geografica degli autori, un po’ perché evidentemente il travaso dal web alla sala non è automatico. Autori i romani Luca Vecchi, Luigi Di Capua, Matteo Corradini; il primo, regista del film, è anche il miglior attore. 
I personaggi aggiornano la buona vecchia tradizione dei vitelloni. Tre trentenni romani, conviventi, cercano di resistere al lavoro, alla vita adulta, al mondo. “Sdraiati” postremi, a modo loro coscienti oppositori del mondo esterno con il loro intransigente fancazzismo. Fin troppo facile il confronto con il film di Zalone, visto che qui ci troviamo alla tappa successiva del rapporto col mondo del lavoro. Qui “posto fisso” è un termine arcaico e quasi sconosciuto, come fosse la mezzadria se non il guidrigildo. I giovani del film fanno di necessità virtù: non ce l’hanno, il lavoro, e non lo vogliono, un po’ come la volpe e l’uva. E quando uno dei personaggi comincia a lavorare lo fa per paradosso, di nascosto, come una perversione cui è trascinato da una donna, che coltiva anche lei questo vizio assurdo. Addirittura, il nostro eroe ci rimane sotto fino al tempo da voler “diventare bangla”, e attraversare un percorso ascetico che lo porti a diventare perfetto gestore di minimarket etnico. 
Il rischio era che il film morisse dopo venti minuti. E invece, nonostante un calo fisiologico e mille zeppe per tenerlo in piedi, arriva senza troppo annoiare fino alla fine (anche perché saggiamente dura, al netto dei titoli, un’ora e un quarto). La parte meno interessante è ovviamente il filone sentimentale, e molte scelte di regia sono debitrici del ritmo convulso del web, ma al cinema appaiono un po’ stonate: i montaggini con musica sotto, i time lapse, l’alternanza un po’ casuale di bianco e nero e colore. La cosa migliore è il confronto tra generazioni, il padre di uno dei protagonisti (interpretato dal vero padre), idraulico che decide di mettersi a fare video e di andare a vedere che aria tira a Berlino, come in una parodia dei già parodistici figli. I tre protagonisti che non vogliono crescere diventano poi facile preda della nostalgia («vi ricordate l’epoca d’oro delle pippe?») e vogliono regredire al tempo del liceo se non dell’infanzia. La cosa curiosa è che anche le citazioni cinematografiche (da Le iene a L’attimo fuggente) riguardano tutti film di 20-25 anni fa.
La partenza zoppa del film dei The Pills fa riflettere sulla difficoltà di aggiornare la nostra comicità, di trovare un nuovo pubblico nei cinema. È appena arrivato in sala uno stremato film di Salemme che mantiene il suo pubblico, forse anche grazie al mestiere dei caratteristi, dal grande Carlo Buccirosso a Tosca d’Aquino a Paolo “Biascica” Calabresi. È in arrivo il nuovo film di Verdone, rimasto l’unico esponente della generazione degli anni ’80, quella dei Troisi e dei Benigni, e che, come dichiarava esplicitamente nell’ultimo, malinconico e crudele Sotto una buona stella, ha sempre meno voglia di ridere. In Tv c’è stata quella meravigliosa eccezione di Boris, al cinema un tentativo riuscito, almeno dal punto di vista produttivo è stato Smetto quando voglio (di cui sono in preparazione altri due episodi), ma forse per i prossimi decenni dovremo rassegnarci a cercare sempre più fuori dal cinema i comici contemporanei, quelli che parlino dell’Italia del post-posto fisso.