Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2016
Quelli che lasciano andare via i bravi manager
Le dimissioni di Mario Greco da amministratore delegato di Assicurazioni Generali sono costate alla società più di un miliardo di euro, tanta è la riduzione della capitalizzazione di mercato della società di Trieste quando si è diffusa la notizia. La versione ufficiale è che Greco se ne è andato perché Zurich, la società assicuratrice svizzera da cui proveniva, gli ha offerto di più.
Anche ad accettare questa versione, Generali non ci fa una bella figura. Vorrebbe dire che per non pagare un amministratore qualche milione in più, sono disposti a distruggere un miliardo di valore. Tanto più che questa frugalità sarebbe in contrasto con i 16 milioni di buonuscita pagati all’ex presidente Geronzi dopo solo pochi mesi di mandato.
E sarebbe un’offesa all’intelligenza dei consiglieri di amministrazione: pagano tanto chi di alternative non ne ha (come Geronzi), ma si rifiutano di pagare salari competitivi a chi alternative ne ha molte, come Mario Greco, nonostante l’ottima performance ottenuta. Durante il mandato di Greco, il titolo Generali ha reso il 57%, sette punti percentuali più del dell’indice azionario della Borsa di Milano (Mib-Ftse) durante lo stesso periodo.
Purtroppo temo che la verità sia un’altra. In Italia, gli azionisti di riferimento non vogliono dei manager bravi, perché i manager bravi hanno alternative e quindi non si piegano sempre ai loro voleri: hanno il coraggio di dissentire. Non è un problema specifico di Generali. Rcs ha lasciato andare Vittorio Colao, che oggi dirige con successo Vodafone, perché non si piegava ad effettuare un’acquisizione che poi, non sorprendentemente, si è rivelata disastrosa. Il titolo Rcs ha perso il 95% del suo valore dopo la sua dipartita. Lo stesso è successo ad Andrea Guerra. Nei suoi 10 anni al comando di Luxottica Andrea Guerra ha più che triplicato il prezzo delle azioni contro un aumento di solo l’11% del Mib-Ftse. L’unica consolazione per il nostro Paese è che non se ne è andato all’estero, come invece è successo per Greco e Colao.
Il prossimo manager a rischio è Marchionne, che come nel caso di Greco, è stato chiamato al capezzale di un’impresa in crisi. Con un rialzo del titolo Fiat del 282,6% dal suo arrivo al Lingotto, Marchionne ha salvato il gruppo automobilistico italiano. Proprio per questo, c’è il rischio che esplodano tensioni con ciò che resta della famiglia Agnelli, più interessata al controllo dell’azienda che al rendimento dei piccoli azionisti, ancora chiamati in Italia “parco buoi”. Speriamo che questo rischio non si palesi. Ma se la Borsa italiana non rappresenta un buon investimento e i nostri risparmiatori la disertano, è anche perché gli amministratori delegati delle società quotate devono sottostare a questo rischio.
Insomma, non c’è niente come la paura del fallimento a spingere gli azionisti verso scelte efficienti. Scampato il pericolo, però, c’è maggiore interesse a gestire il potere che a migliorare l’azienda. Per questo quando raggiungono il risanamento, i manager bravi sono accompagnati alla porta. Per sostituirli non vengono scelti solo manager mediocri, si selezionano proprio i peggiori. Agli occhi dei sedicenti padroni costoro hanno l’indiscutibile vantaggio di essere proni ai loro voleri, proprio perché privi di qualsiasi alternativa. È questa la tanto deprecata peggiocrazia, il vero male del capitalismo italiano. Un male antico – basti pensare al licenziamento di Vittorio Ghidella da parte di Giovanni Agnelli – un male con cui l’Italia è riuscita in passato a sopravvivere, ma che oggi – in un mondo globalizzato – è diventato un male esiziale. Dobbiamo cercare di curarlo prima che uccida la nostra economia. Ma come?
In un’economia di mercato il proprietario di un’azienda decide chi dirige l’azienda stessa. Quando l’azienda è in forma societaria, la responsabilità è formalmente affidata al consiglio di amministrazione, anche se di fatto è l’azionista a decidere. Fintantoché una società non è quotata e non ha una fetta rilevante di azionariato diffuso, questa pratica ha un senso. Ma quando la società è quotata e l’azionista “di controllo” ha solo il 10-15% è ancora la cosa giusta da farsi? Alcuni pensano che sia meglio che a decidere sia un’azionista, anche solo con il 10% delle azioni, che dei consiglieri di amministrazione che troppo spesso non possiedono neppure un’azione. Questo è vero solo se i consiglieri non hanno alcuna motivazione economica ad aumentare il valore della società e se l’azionista di riferimento non ha altri interessi in conflitto. In Italia, però, quasi sempre l’azionista di riferimento ha degli interessi in conflitto, anche solo quello di piazzare i figli.
Ciononostante (o forse proprio per questo) in Italia il consiglio viene costantemente esautorato. Prima della scadenza del mandato triennale, i consiglieri non sanno neppure se saranno rinnovati. Dopo il rinnovo, l’amministratore delegato in pectore siede già in consiglio, e il resto dei consiglieri si trova con il fait-accomplit. Anche nei rari casi di nomina in corso di mandato, le normali procedure sono ignorate. Nel 2007, quando Franco Bernabè fu nominato amministratore delegato di Telecom, io ero presidente del comitato di nomine e remunerazioni della società, ma la scelta la appresi dai giornali e non fui mai consultato prima del voto in Consiglio.
Cambiare una legge è più facile che cambiare una pratica cristallizzata negli anni. Eppure un cambiamento è possibile se venisse introdotto il meccanismo di scelta dei consiglieri di amministrazione in uso in Svezia. La lista dei consiglieri viene decisa da un comitato nomine esterno al consiglio, dove i principali azionisti (inclusi quelli istituzionali come i fondi pensione) fanno sentire la loro voce. In questo modo chi ha il 15% non può nominare tutti i consiglieri tranne uno, come in Italia. La scelta dell’ad viene poi lasciata al consiglio stesso.
Ovviamente esiste il rischio che in Italia questo sistema si traduca in accordi sotto banco e lottizzazioni degne del miglior Manuale Cencelli, ma vale la pena di provare. Il sistema attuale non fa che perpetuare la peggiocrazia esistente. Ci stupiamo poi se il Paese non cresce?