31 gennaio 2016
La libertà di essere Aldo Canovari
Giuliano Ferrara per il Sole 24 Ore
Prima del primo numero del «Foglio» incontrai Aldo Canovari, che in seguito per vent’anni e più ci ha mostrato affetto e attenzione (mi dicono che nel suo ufficio campeggiano le lastre dei numeri zero del giornale).
Non sono un libertario, tutt’altro. Di formazione comunista e poi anticomunista, sono un individualista naturale che s’intruppa, che milita, che da qualche parte coltiva il vizio privato unico detestato da Aldo, l’idea dello Stato come astrazione concreta. Di fronte al prevalere del “sociale”, variante della prevalenza frutterolucentiniana del “cretino”, non nascondo di aver goduto all’asserzione thatcheriana: «Non conosco la società, conosco soltanto individui». E da tempi non sospetti, da quando ero ancora nei postumi dell’eurocomunismo, figuriamoci.
Se penso alle oligarchie senza significato, volgarmente predatorie, sono tentato anch’io di rinnegare la lettura dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel e lo storicismo di Croce, in favore di una crociata laica per l’indipendenza dallo Stato, ma nel mio animo la libertà è la disciplina orchestrale dei Berliner Philarmoniker quando eseguono la prima e la seconda scuola di Vienna, non la dissonanza caciarona dell’antipotere e dell’antipolitica. E siamo sempre nel Brandeburgo.
Però sono abbastanza elastico, e abbastanza erudito dall’esperienza, per aver capito in tempo che Aldo Canovari è un uomo, un cittadino, un philosophe e un editore di qualità e di razza superiore, con un gusto dell’individualismo e una vena di cultura e coscienza che sa affascinare anche un sosia del bue muto come me, tanto è vero che attribuisce una certa primogenitura nel pensiero liberista se non libertario alla scolastica spagnola del Cinquecento, il che non è da tutti. Solo un italiano di Macerata, cioè un civis romanus di schietta fattura provinciale e cosmopolita, poteva assumere su di sé una tale inaudita e verosimile civetteria. Gli anglosassoni sono liberali di natura, gli italiani lo sono per scelta contro natura, e in questo sono più rari e addirittura più preziosi.
Canovari ha una sua idea del bene privato come liberazione dalle costrizioni del pubblico, del dominante, alla quale le persone di spirito volterriano, anche grossolano come il mio, non possono non rendere reverente omaggio. La sua impresa è di una solida e sconcertante solitudine morale, tanto più lodevole nella fiera delle vanità e delle inutilità cartacee che affligge la libreria italiana, almeno mediamente.
Fissa l’obiettivo, definisce i suoi contorni, mette a fuoco e, procuratesi le migliori munizioni sul mercato, senza timore spara. E colpisce nel segno. Non talvolta. Non quasi sempre. Sempre. Le sue scelte sono di minoranza, di eleganza, di intransigenza, e hanno il dono di aprire la mente al solo compulsare copertine, titoli, risvolti, per non parlare dei testi. Non ha bisogno di dirsi esclusivo, lo è. Esclude l’ovvio, compagno di disavventura della corrente tendenza alla ripetizione del già noto e alla rimodulazione di un sonoro affollato di note false.
Nel difendere l’indifendibile è credibile, il che ammetterete non è da tutti. È credibile come lo fu il reverendo Swift nei suoi viaggi, nei suoi saggi. È una candida e ingenua Alice nel trionfo dell’intelligenza. È un John Locke involtolato nelle Facezie del seigneur du villagede Ferney. Il suo appello al cielo, la resistenza alle pretese del pubblico sul privato, è un grido che nessun intellettuale italiano, e in genere la categoria è il contrario dei philosophes e dei philosophers specie quando si dice illuminista, ha mai saputo emettere dalla sua debole gola profonda. In lui non ci sono marinismi, barocchismi, prevalenze del segno sul volume: è un architetto classicheggiante dei suoi libri, un traspositore di culture, un artigiano di Macerata che vira verso ogni possibile longitudine e latitudine come fosse seigneur di un village ginevrino. Chiamano ammirazione la sua assenza di vanità, la sua pertinacia, l’insieme delle sue ossessioni lucide sulla giustizia, sul diritto, sull’economia, sulle istituzioni e i costituzionalismi civili liberali. La sua stessa alleanza con il cattolicesimo liberale, forgiata in un’amicizia e in una reciprocità societaria, uno dei segreti della sua maison, segue linee classiche e insieme ci fa scoprire una dimensione possibile del libertarismo italiano. Aspetto un suo pamphlet di critica al francescanesimo della Chiesa d’oggi, ma forse è già uscito, forse tutti i suoi liberilibri sono la confutazione vivente e vivace delle platitudes della teologia del popolo, con tutta la sua omologante tenerezza e con tutta la sua meravigliosa, incantevole, risonante ma flebile idea di misericordia.
Dopo il sorteggio dei magistrati, idea geniale e possibile, mi aspetto il sorteggio dei sommi pontefici. Che cosa serve alla cultura italiana? Qualcuno libero di parlare dei limiti della legge e del suo enforcement statuale, e in Aldo lo si è trovato. la somma ingiustizia di una giustizia politicizzata e mediatizzata, e lo si è trovato nell’editore del cirque mediaticogiudiziario di Daniel Soulez Larivière. Un provocatore capace di far capire il perché del garantismo estremo come difesa del male assoluto, e abbiamo avuto i libri liberi firmati da Jacques Vergès. Ci voleva un costituzionalista senza trucchi, uno che non invocasse il costituzionalismo come compromesso culturale e strategico tra diverse varianti del totalitarismo novecentesco, e in cento buoni libri di costituzionalismo liberale uno Zagrebelsky ha trovato la sua nemesi. Ci voleva un difensore dei Jean Calas e dei Sirven di oggi, sottoposti alla gogna quando non al supplizio, e c’era Aldo Canovari pronto alla bisogna con Roberto Racinaro e altri. Ci voleva qualcuno che avesse in dispetto sovrano, e con la giusta dose di intolleranza psicologica e teorica, gli articoli liberticidi sopravvissuti nel codice penale, l’assistenzialismo come programma di protezione e di eviscerazione dell’individuo libero, e Aldo si è presentato all’appello. Ci volevano soprattutto un tatto, e una mancanza di tatto, un garbo, e una capacità di essere sgarbato, un tono, e una musica di ritmo duro e fecondo, e tutto questo Canovari editore ce lo ha dato. Era essenziale il gusto non futile del paradosso, la critica della stupidità e dell’infamità etica, la rivendicazione dell’autonomia del soggetto pensante e operante nella società aperta, e Canovari si è immerso in questa popperiana unended quest, pronto in ogni momento a farsi falsificare e contraddire.
Sono anche temi della multipredicazione, della minuscola capacità di analisi di un piccolissimo giornale come «il Foglio» o di un istituto di ricerca e battaglie come il Bruno Leoni, sempre contraddetti dalle loro scelte politiche o di cultura, dalle loro illusioni, dai loro errori e dal loro errare, ma mai in forma chiusa e antiliberale. In questo senso Canovari è un fratello. Non vuole mettersi troppo sottocosta ad altre imprese che non siano le sue, e lascia agli altri la libertà di sbagliare, come la concede virtualmente anche a se stesso, e di tacere, di omettere, di peccare. Ma è un virtuoso. Non amerà come me la devozione, che non è la caricatura della pietà religiosa ma un concetto di virtù eroico, complesso, antico, derivato dalla grande lezione greco-romana e dalla tradizione giudaico-cristiana. Aldo non è un temperamento omerico, ma il suo lavoro di decrittazione dei falsi d’autore della politica moderna e dell’ideologia moderna ha tuttavia qualcosa di epico, e allude alla manliness, concetto straussiano mutuato dalle capitali del pensiero classico, Atene e Gerusalemme. In questo Canovari è unico e Dio lo deve benedire anche a nome di chi non crede in lui o lo trascura.
Giuliano Ferrara
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Florindo Rubbettino per il Giornale
«Ti moi sun douloisin?» è il motto greco che Piero Gobetti, che fu anche editore, imprimeva sulle copertine dei propri libri. «Che cosa ho a che fare io con gli schiavi»? È forse la domanda che ogni editore dovrebbe porsi e che sicuramente Aldo Canovari si pone quotidianamente. Il suo catalogo è un esempio di come si possano iniettare in un Paese come l’Italia anticorpi liberali e libertari attraverso la pubblicazione di giganti del pensiero e di idee libere anticonformiste, eccentriche, irregolari che liberano dalla schiavitù più pericolosa: quella culturale. Compito davvero arduo in uno strano mondo come quello dell’editoria italiana che di liberale ha davvero poco. Il dibattito che occupa in questa stagione gli addetti ai lavori, ma più in generale il mondo intellettuale italiano, riguarda il presunto pericolo che deriverebbe dal rafforzamento dei grandi editori attraverso il processo di acquisizioni e concentrazione in atto, che minerebbe il pluralismo e la concorrenza. Parola utile, concorrenza, da usare al bisogno. Peccato, però, che quegli stessi attori che si lamentano (editori, librai, critici) siano gli stessi che hanno voluto e continuano a difendere la legge illiberale e contro la concorrenza che vieta nel mercato editoriale gli sconti liberi. Peccato siano gli stessi (...)(...) che, nell’additare come pericolosi i grandi editori a loro dire sempre più appiattiti sui bestseller e su prodotti di bassa qualità da cui deriverebbe anche l’omologazione culturale, ricordano con nostalgia la lunga e gloriosa stagione degli editori impegnati, con una forte impronta intellettuale ed ideologica, che a partire dagli anni Sessanta contribuirono alla diffusione di libri di cultura o comunque di libri di «buone letture».
La domanda che verrebbe da porre a questi nostalgici dei tempi gloriosi è se non sia stata proprio quella stagione a produrre omologazione culturale. È un fatto incontestabile che nel catalogo di molte di quelle case editrici, i cui meriti culturali non sono in discussione, non ci fosse tuttavia spazio per titoli che fuoriuscissero da precise ortodossie. La storia editoriale italiana del dopoguerra è fin troppo nota per essere ricordata. Un’élite culturale ha presidiato il campo decidendo cosa pubblicare e cosa non pubblicare e dettando i canoni per porre una linea di demarcazione netta tra ciò che era politicamente ed editorialmente corretto e ciò che non lo era. Intellettuali del calibro di Bruno Leoni, Karl Popper, Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek, per restare al campo delle scienze sociali, ma ovviamente il discorso può essere esteso ad altri generi o discipline, sono stati sistematicamente ignorati e ostracizzati e, solo grazie alla perseveranza e al coraggio di un manipolo di intellettuali e di qualche editore, sono alla fine riusciti a penetrare, con decenni di ritardo rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale, nel dibattito scientifico.
Bisogna chiedersi quanto quell’editoria in gran parte militante abbia contribuito alla circolazione delle idee e quanto, al contrario, abbia impedito, con l’ideologia e la censura, la circolazione delle idee altre. La sensazione è che i cataloghi di quegli editori non riflettessero apertura, confronti, più visioni del mondo, ma sovente chiusura, ostracismo e ortodossia.
Per pubblicare Nietzsche ci fu bisogno di fondare l’Adelphi. Leggendo ad esempio i verbali delle «riunioni del mercoledì» dell’Einaudi, la casa editrice che ne rifiutò l’edizione, si comprende come l’obiettivo primario fosse quello di fidelizzare i lettori, laddove la fedeltà si intendeva ideologica, per non dire politica o partitica. Delle vere e proprie «Chiese editrici», più che case editrici, editori che appagavano il bisogno di appartenenza e di ortodossia. La storiografia, ad esempio, era lo strumento analitico su cui costruire la cultura di governo della sinistra italiana. Era anche l’epoca in cui le agenzie rateali sparse sul territorio fidelizzavano il cliente e lo invitavano a costruire la biblioteca ideale per i propri figli. Nulla doveva essere lasciato al caso. Se non è omologazione questa. Certo non sono mancati gli editori che davano spazio a voci plurali, che difendevano la «battaglia delle idee». Basti pensare a Bompiani, a Longanesi, a Rusconi, agli stessi grandi editori tanto bistrattati che hanno dato spazio ad autori altrimenti non pubblicati e che alla fine hanno acquisito, e salvato, ciò che restava di quelle gloriose case editrici con i bilanci dissestati.
E qui si innesta un secondo tema: il mercato. La scarsa simpatia per il mercato degli editori, ma anche degli intellettuali, è un dato di fatto. Il mercato è il male. L’editoria si è trasformata in industria, il «neoliberismo» e il «turbocapitalismo» hanno ucciso anche la produzione libraria. L’editore autentico è colui che non si cura di marketing, di vendite e del conto economico, ma chi promuove la cultura vera. Quando un romanzo o un saggio hanno successo, a spiegare il fenomeno vengono mobilitate molte ragioni e tutte ignobili. Il mercato è responsabile della scarsa qualità delle opere in commercio e gli editori (soprattutto i grandi) speculano sull’ignoranza dei più. Questi giudizi, oltre a denotare una totale ignoranza delle leggi che muovono la società e lo scambio, sono un’ennesima conferma dell’elitismo di gran parte del mondo intellettuale ed editoriale che si compiace dell’appartenere a una ristretta cerchia di illuminati assediata dalla barbarie incombente. Una sorta di hayekiana «presunzione fatale» trasposta nel mondo editoriale.
Sempre leggendo i verbali einaudiani del mercoledì si scopre che non un numero, una tiratura o una percentuale di resa verrà mai a funestare l’ovattata discussione intorno a titoli e autori. Se il mercato è responsabile della bassa qualità dei titoli bisogna dunque fare pulizia, salvaguardando chi fa qualità ed eliminando tutti i libri spazzatura. Sembra una battuta, ma così non è. Nel 2011 ha fatto molto discutere il manifesto della Generazione TQ, scrittori, editor, giornalisti, editori, critici e cineasti trenta-quarantenni che, proclamando di volersi riappropriare della definizione di «intellettuali», sono arrivati a teorizzare la decrescita anche in campo editoriale. Qualche passaggio illuminante: «In un tempo in cui l’editoria non si distingue ormai più da qualsiasi altro settore dell’economia (...), TQ ritiene che l’editoria, pur essendo un mercato, non possa tuttavia essere solo un mercato senza rinunciare a essere anche uno dei luoghi elettivi in cui si forma la coscienza dei cittadini; e vuole che il libro sia sottratto allo statuto di merce e restituito a quello di un bene alla cui preservazione dev’essere interessato anche chi non legge. (...) Dovendo dunque contrastare i deserti e le derive che il consumismo e il capitalismo hanno prodotto nel campo della cultura, TQ si impegna ad agire secondo quelli che possono essere definiti come criteri di ecologia culturale (...) constatando come la quantità di libri pubblicata ogni anno sia ormai ampiamente oltre la soglia della sostenibilità non solo culturale ma addirittura commerciale, si fa promotore di una proposta di riequilibrio nella produzione dei libri che impegni gli editori a privilegiare la qualità rispetto alla quantità». Come dire: basta con tutti questi libri, con tutta questa libertà di scelta, con tutti questi editori, con questo pluralismo inutile. Scegliamo noi i titoli utili, i testi fondamentali, il resto è inquinamento, facciamo un po’ di «sana ecologia culturale». Avrei voluto chiedere agli intellettuali TQ (che però nel frattempo hanno chiuso blog e battenti) se il catalogo di Liberilibri poteva aspirare a essere salvato dalla loro campagna ecologica. Temo però di conoscere già la risposta. Marshall McLuhan ci ha spiegato in La galassia Gutenberg come la moltiplicazione dei libri indotta dalla nascita della tipografia in quanto industria abbia affrancato l’uomo da molte catene, abbia innescato una serie di rivoluzioni come l’umanesimo, la nascita della scienza moderna, delle lingue nazionali e la libertà di leggere e interpretare a proprio modo i libri. Un tempo il progresso era la moltiplicazione dei libri e delle occasioni di lettura. Oggi, invece, l’obiettivo degli impegnati sembrerebbe quello di non far scrivere, non far leggere. Un’idea tribale, di chi per conservare la propria purezza è disposto a chiudersi in una fortezza inespugnabile.
Anche le librerie non si sottraggono a questi tic. Qualche anno fa un libraio milanese annunciò con un cartello posto in vetrina che era indisponibile a vendere il libro appena uscito di Bruno Vespa. Le pagine di un libro che diventano qualcosa di infetto. Stesso destino tocca purtroppo ancora oggi a molti classici del liberalismo confinati in scaffali secondari o addirittura senza diritto di asilo in alcune librerie dove non aggradano agli attenti e impegnati librai. Piero Gobetti, che in soli due anni di attività editoriale pubblicò 84 titoli, traducendo maestri del pensiero liberale come John Stuart Mill, pubblicando i primi scritti di Luigi Einaudi e la prima edizione di Ossi di seppia di Montale, di censura ne sapeva qualcosa. In molti casi i suoi libri furono dati alle fiamme o comunque distrutti sotto il fascismo e per questo sono in molti casi introvabili. Nel suo libretto L’editore ideale, oltre a tracciare il profilo di questa figura e a raccontarne la passione e le difficoltà, la tenacia e lo spirito creativo, mostra di aver trovato il giusto equilibrio per non rinunciare alla qualità tenendo conto delle leggi del mercato. E soprattutto dei propri principî. Scrive: «Ho in mente una mia figura ideale di editore. Mi ci consolo, la sera dei giorni più tumultuosi, 5, 6 per ogni settimana, dopo aver scritto dieci lettere e venti cartoline, rivedute le terze bozze del libro di Tilgher o di Nitti, preparati gli annunci editoriali per il libraio, la circolare per il pubblico, le inserzioni per le riviste, litigato col proto che mi ha messo un errore nuovo dopo tre correzioni, mandato via rassegnato dopo 40 minuti di discussione il tipografo che chiedeva un aumento di 10 lire per foglio, senza concederglielo; aiutato il facchino a scaricare le casse di libri arrivate troppo tardi quando ci sono solo più io ad aspettarlo, schiodata io stesso la prima cassa per vedere i primi esemplari e soffrire io solo del foglio che è sbiancato in una copia, e consolarmi che tutto il resto va bene; arrivato con 30 soli secondi di ritardo alla stazione dove tra un treno e l’altro devo combinare un contratto con un editore straniero, ricevute venti telefonate, dieci facce nuove che vengono con le proposte più bislacche e bisogna sentire, per vedere l’idea che vi portano, scrutarle, scegliere il giovane da aiutare e il presuntuoso da metter subito alla porta. Quattordici ore di lavoro al giorno tra tipografia, cartiera, corrispondenza, libreria e biblioteca (perché l’editore dev’essere fondamentalmente uomo di biblioteca e di tipografia, artista e commerciante) non sono troppe anche per il mio editore ideale. L’importante è ch’egli non debba aver la condanna del nostro pauperismo, non debba vivere di ripieghi tra le persecuzioni del prefetto, il ricatto della politica attraverso il commercio. Penso un editore come un creatore. Creatore dal nulla se egli è riuscito a dominare il problema fondamentale di qualunque industria: il giro degli affari che garantisce la moltiplicazione infinita di una sia pur piccola quantità di circolante. Il mio editore ideale (...) non ha bisogno di essere un Rockefeller (...) Basta che egli sia stato logico; non abbia fatto transazioni coi suoi principî di uomo colto, che pubblico e scrittori siano sicuri di lui». Ecco perché Aldo Canovari è un editore ideale.