la Repubbica, 31 gennaio 2016
L’importanza di chiamarsi Tolstoj. Ecco che fine hanno fatto i discendenti del grande scrittore
Traffico di Roma, cacofonia di clacson. «Sia gentile, possiamo risentirci che accosto?». Andrea Albertini, cinquant’anni, marcato accento romano, lavora come consulente per una banca e non immagineresti mai che è un discendente diretto del grande romanziere russo Lev Nikolaevic Tolstoj. Al telefono ci racconta la sua storia, che si intreccia con quella degli altri discendenti dell’autore di Guerra e pace. Sono circa trecento e vivono chi in Svezia, Gran Bretagna o Stati Uniti, chi in Brasile e in Uruguay, chi in Repubblica Ceca, Italia e, naturalmente, in Russia. Hanno tra i cinque e gli ottantasei anni. E fanno i mestieri più diversi: radiologo, imprenditrice, artista, storica dell’arte, presentatore tv, grafico, direttore d’azienda. Neppure uno fa lo scrittore. Ogni due anni si ritrovano per una grande riunione di famiglia a Jàsnaja Poljàna, la tenuta dove è nato e è sepolto Tolstoj, immersa tra gli abeti e le betulle nella campagna di Tula, duecento chilometri a sud di Mosca. A uno di questi appuntamenti, qualche anno fa, andò anche Oleg Tolstoj, parente londinese e giovane fotografo. Decise di fotografare tutti gli ottanta discendenti giunti quell’anno e poi di raccoglierne i ritratti in un libro, The Tolstoys in the 21st Century, ora edito da Merrell Publishers.
C’è anche quello di Andrea Albertini: «Noi Tolstoj italiani siamo molto legati ai Tolstoj russi», racconta, «grazie a mia nonna Tat’jana Michajlovna Suchotina, che era la figlia di Tat’jana L’vovna Suchotina Tolstaja, secondogenita di Lev Tolstoj e Sof’ja Andreevna. Era povera, scappò dalla Russia nel 1925 con sua madre e, dopo un periodo a Parigi, sposò nel 1930 un ricco italiano, Leonardo Albertini, figlio di Luigi, lo storico direttore del Corriere della Sera. Dei nove figli sopravvissuti di Lev, solo due rimasero in Russia, gli altri fuggirono in Jugoslavia, Svezia, Stati Uniti e in Dacia. Quando ci si vede a Jàsnaja Poljàna di solito siamo in un centinaio. Si comincia con le chiacchiere – e come sta mamma, e come va con i figli, ah quella è morta ma che peccato – poi dal quarto giorno si attacca con la vodka e tra una pacca e l’altra saltano fuori i momenti più belli. Perché vede: siamo tutti legati a un’unica persona, che certo è famosissima e ne siamo felici, ma sappiamo che se anche Lev Tolstoj fosse stato un artigiano per noi non cambierebbe nulla». Ormai si frequentano anche fuori dalla Russia. «Abbiamo avuto ospiti qui a Roma a casa nostra i parenti danesi, e quando a Natale siamo andati negli Stati Uniti ci siamo sentiti con i canadesi. Poi capirà, ora, con Facebook...: se vai a Parigi non glielo dai un colpo ai parigini?». Anche Chiara, la figlia venticinquenne di Andrea, da Londra mantiene i contatti con i Tolstoj più giovani: «Ci sentiamo su Instagram e Facebook», racconta al telefono dal suo ufficio nella City, dove lavora per un’agenzia di pubbliche relazioni, «meno di un mese fa è venuta a trovarmi la mia cugina americana, Tanya Sarandinaki. La prima volta che partecipai a una delle riunioni avevo diciott’anni. Fantastico: improvvisamente mi ritrovai un centinaio tra zii, zie e cugini».
La decana del ramo italiano della famiglia è Marta Albertini, pronipote di Tolstoj. «Mia nonna era una donna dalle mille sfaccettature. Sapeva fare di tutto, costruiva anche le bambole, e a noi nipotini raccontava misteriose fiabe russe che ci incantavano. Del padre parlava raramente, però viveva in un appartamento a Roma dove c’era quella che veniva chiamata la “camera tolstojana”: in una vetrinetta teneva tutte le poche cose che era riuscita a portare via dall’Unione sovietica. Dormivo spesso in questa stanza, e mi faceva paura per via di una scatoletta con dentro i peli della barba di Tolstoj. Una cosa che da bambina trovavo spaventosa».
Tra i pronipoti rintracciamo anche Daniil Nikitich Tolstoj. Si divide tra la Svezia e la Russia e ha partecipato a tutte le riunioni di famiglia. «Per noi Tolstoj», racconta da San Pietroburgo, dove siede nel cda della più antica fabbrica di orologi russa, la Raketa, «ritrovarci significa riprendere la rotta che avevamo perso, mescolarci tra generazioni. Ognuno di noi è orgoglioso di Lev per motivi diversi. Io per esempio gli sarò sempre riconoscente per Chadži- Murat, forse meno conosciuto di altri, ma un capolavoro».
Ma è stato per merito di Vladimir Ilich Tolstoj, detto Volodja, consulente del presidente Putin per la cultura, che è nata la tradizione delle riunioni biennali. «Organizza tutto lui», conferma Andrea Albertini, «anche i pullman per spostarci. Ogni sera a Jàsnaja Poljàna c’è un concerto, arrivano ensemble di musica classica o gruppi jazz. Considerano prestigioso poter partecipare ai nostri incontri, perché per loro Tolstoj resta il vero padre della patria». Aggiunge e conclude Ylva Berling-Pesant, da Parigi, dove lavora per l’Ocse: «A distanza di cinque generazioni ci ritroviamo ancora sotto la sguardo severo e amorevole di Lev Tolstoj, ma la cosa più commovente – posso dirlo? – beh, mi sa che siamo proprio noi».