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 2016  febbraio 01 Lunedì calendario

Quando il muto sapeva parlare. Buster Keaton, a 50 anni dalla morte

Certi personaggi sono così immensi che non appartengono al loro tempo ma sembrano galleggiare per sempre in un Altrove irraggiungibile e insieme infinitamente vicino, come qualcosa che ci riguarda e continua a parlarci. Buster Keaton appartiene a questa categoria ristretta ma tutt’altro che privilegiata perché composta per lo più da figure tragiche. Artisti incompresi o traditi, in anticipo sulla loro epoca o travolti dal passare del tempo e delle mode. Nel caso di Keaton tutte queste cose sono vere, anche se per una decina d’anni, fino all’avvento del sonoro, la sua arte e la sua carriera marciarono di pari passo, regalando al mondo una serie di capolavori che non smettono di incantarci.
Morto a Los Angeles il 1° febbraio di 50 anni fa, dopo una vita passata a salire sempre più in alto e a rotolare sempre più in basso, proprio come nei suoi film, il comico-che-non-rideva-mai è passato attraverso tutte le fasi dello spettacolo oltre che del cinema, come in una specie di condensato ideale del Novecento. A nemmeno quattro anni, nel 1899, sale in palcoscenico con i genitori, artisti del vaudeville, specializzandosi subito in capitomboli e maltrattamenti incassati senza batter ciglio. A 70, dopo essersi ridotto a lavorare nel circo e a girare filmetti in giro per l’Europa (tra cui Due marines e un generale, con Franco e Ciccio), è il protagonista dell’unico lavoro per il cinema di Samuel Beckett, laconicamente intitolato Film. Un corto quasi muto in cui il vecchio attore, solo, pronuncia un sonoro «Shhhh!» per poi cercare di sottrarsi all’occhio della macchina da presa. Fino a quando non si ferma terrorizzato dinanzi alla propria immagine allo specchio.
AUTOBIOGRAFIA
Tra questi due estremi, il padre che lo usa come uno straccio per i pavimenti, e il re dell’avanguardia che ne fa il simbolo della condizione umana, si distende un’esistenza così avventurosa che sembra inventata. Ogni tappa è una metafora, ogni svolta si carica di rimandi e significati generali. Come lui stesso sembra intuire, senza sottolinearlo, nella sua travolgente autobiografia introvabile ormai da decenni, Memorie a rotta di collo (ma è ancora in circolazione il sontuoso cofanetto della Cineteca di Bologna con i suoi corti e un bel documentario di Kevin Brownlow).
Poche settimane dopo essere venuto al mondo, il 4 ottobre 1895, un ciclone spazza via il paesino. A sei mesi cade dalle scale, strilla, viene raccolto dal mago Houdini, che allora faceva ditta con i suoi e con altre future star come Al Jolson e W. C. Fields, e battezzato per sempre Buster, cioè flagello, demolitore (il suo vero nome era Joseph Frank). 
A tre anni un altro ciclone lo sbatacchia fuori di casa per qualche isolato, dove viene ritrovato da un vicino. Il resto lo faranno il duro tirocinio in scena coi genitori, il crescente successo personale, gli incidenti a catena, le gag sempre più elaborate e violente che prendevano a bersaglio «I tre Keaton», facendo sbellicare il pubblico delle fiere in cui si esibivano. Ma anche lo spettacolo di un paese che cresceva e si trasformava a vista d’occhio, lasciando un’impronta memorabile sul suo cinema a venire.
Rivedere oggi i grandi film di Buster Keaton significa infatti immergersi in una specie di trascrizione fantastica, ma per così dire “in diretta”, del fragoroso travaglio da cui sarebbe nata la modernità. Per questo l’attore-autore di film come Accidenti che ospitalità, La palla n. 13, Il navigatore, Il cameraman, o The general/Come vinsi la guerra (il suo preferito), è forse più grande di Chaplin, o almeno più moderno. Chaplin è legato a modelli ancora letterari, il suo vagabondo è un personaggio costruito di sana pianta, nei suoi film pulsano Dickens e la cultura europea. Keaton è più selvaggio, più “meccanico” in certo modo, meno sentimentale, più portato a costruirsi un corpo e uno spazio che appartengono solo al cinema.
SENZA TRUCCHI
In Chaplin l’uomo è ancora il centro dell’universo. La maschera impassibile di Keaton e le continue catastrofi che lo assediano, ponti che crollano, case che si abbattono, treni che precipitano nel fiume, folle di poliziotti, o di donne, o di sconosciuti che erompono da ogni dove inseguendo il protagonista (tutto vero, senza trucchi) parlano invece di un mondo che è ancora il nostro, perennemente in debito di umanità. E ancora capace di ispirare attori e registi. Basta un giro su Youtube, dove per fortuna non si esibiscono solo critici improvvisati e teenager a caccia di celebrità, per scoprire antologie che mettono a confronto celebri scene di Keaton con altre di autori e attori di oggi, da Jim Carrey a Jackie Chan, da Bill Murray a Wes Anderson. Mostrando una continuità, uno stupore, un’ammirazione per non dire un’identificazione, che sono il miglior risarcimento possibile, anche se postumo, per uno dei più grandi e sfortunati artisti del ’900. E non solo nel cinema.