La Stampa, 1 febbraio 2016
La crisi della Nigeria, presa tra crollo del petrolio e Boko Haram
«Sconfiggeremo Boko Haram». Si leggeva un anno fa in piena campagna presidenziale sui cartelli elettorali dell’Apc, il partito del neoeletto Presidente Muhammadu Buhari, affissi su ogni strada di Lagos, la megalopoli commerciale della Nigeria da 20 milioni di abitanti. Era la promessa-chiave dell’ex dittatore musulmano per ottenere il voto di una popolazione sconvolta dal tanto sangue sparso nel nord del Paese e nella capitale Abuja. Un anno dopo la promessa non è stata mantenuta.
Boko Haram, alleato africano dell’Isis, è vivo e vegeto nel nord del Paese. «È in ritirata» – come ha sostenuto il ministro della Difesa nigeriano al summit dell’Unione Africana ad Addis Abeba, ma non sconfitto. Ne è prova l’ultimo attacco a Dalori, 5 km da Maiduguri, dove è nato e cresciuto il gruppo jihadista. Testimoni raccontano di bambini arsi vivi, corpi crivellati per le strade. Un primo bilancio è di 86 morti e centinaia di feriti gravi. Un raid, dove per l’ennesima volta, sembra che Boko Haram abbia usato bambine-kamikaze per diffondere terrore e morte.
«Il gruppo jihadista ha perso terreno – analizza Ryan Cummings, Chief Security Analist per l’Africa sub-sahariana di Red24, una società di consulenza di gestione delle crisi – ma ha intensificato la guerriglia come ai suoi albori, trasformandosi nell’organizzazione terroristica che ha fatto più vittime al mondo (ndr 6.644 secondo il Global Terrorism Index 2015)». La linea dura usata dal Presidente Buhari nei confronti dell’esercito nigeriano non è bastata.
L’ex dittatore ha cambiato i vertici militari, condannato alcuni generali per ammutinamento e soprattutto fatto arrestare Sambo Dasuki, l’ex capo della sicurezza nazionale, accusato di aver rubato 2 miliardi di dollari di commesse per acquistare armi e mezzi per combattere Boko Haram. Anche la coalizione di 8700 soldati istituita nel 2014 con i Paesi limitrofi Chad, Niger e Camerun sembra creare più incomprensioni che risultati concreti. Oggi come 33 anni fa, quando il presidente Buhari prese il potere con un colpo di Stato, il crollo del prezzo del petrolio, di cui la Nigeria è primo Paese produttore in Africa e da cui dipende il 95% delle sue esportazioni, mette in ulteriore crisi il gigante dai piedi d’argilla. Non a caso il Presidente ha auto-deciso di impossessarsi anche della carica di ministro del petrolio.
Da maggio 2015, quando Buhari si è insediato, il prezzo del greggio si è dimezzato da 64 a 32 dollari al barile. Dimezzata anche la prospettiva di crescita del Pil da 6,2% a 3% della prima economia africana, tanto da costringere Abuja a chiedere alla Banca Mondiale un prestito d’emergenza da 3,5miliardi di dollari.
A questo si aggiunge l’enorme corruzione che circonda il business dell’oro nero in Nigeria. Secondo un rapporto della Banca centrale, durante la precedente presidenza di Goodluck Jonathan sono scomparsi 20miliardi di dollari di entrate. Ne dovrebbe sapere qualcosa Diezani Alison-Madueke, ex ministro del petrolio e prima donna a guidare l’Opec, arrestata lo scorso ottobre a Londra per aver fatto sparire 3,5 miliardi di dollari. E come se non bastasse, nelle ultime settimane, è riesplosa la tensione nel Delta del Niger, l’epicentro dell’estrazione petrolifera del Paese. I guerriglieri del Mend, che ad inizio 2000 avevano messo a ferro e fuoco la regione chiedendo una maggiore spartizione degli introiti petroliferi, hanno attaccato oleodotti di compagnie straniere e statali. Un chiaro messaggio al presidente Buhari, non amato nel sud cristiano, per convincerlo a rinnovare l’armistizio siglato nel 2009 tra il Mend e l’ex presidente Jonathan in cui si garantiva pace in cambio di una redistribuzione delle risorse economiche nella regione.