Corriere della Sera, 1 febbraio 2016
Antonio Calabrò scrive un libro per ricordare i morti nella guerra alla mafia
Mille morti. Come per un terremoto, un’inondazione, una calamità naturale. E invece mille morti per mano d’uomo, nel nostro Paese, non molto tempo fa. Una guerra di cui è rimasta una traccia vaga nella memoria nazionale, di cui le giovani generazioni non hanno forse mai sentito parlare, se non in un bel film di Pif. Per questo è importante questo nuovo libro di un siciliano che c’era, nell’isola insanguinata dei primi anni Ottanta, prima di dirigere giornali e fondazioni del Nord: Antonio Calabrò, autore de I mille morti di Palermo, che Mondadori sta per pubblicare.
Un martirologio. Che rivela non soltanto una mafia feroce, ma anche una popolazione a volte pavida a volte complice, uno Stato impreparato politicamente e culturalmente, un sistema mediatico intimorito e opaco. Con eccezioni di grande coraggio e tensione morale: uomini in divisa, magistrati, giornalisti, siciliani pronti anche a farsi uccidere pur di testimoniare il rigetto della violenza e della paura, la scelta della legalità e della dignità. Basti pensare alla scena del funerale di Pio La Torre, segretario del Pci siciliano, ammazzato con il compagno Rosario Di Salvo che gli faceva da autista e guardia del corpo: arrivano Giovanni Falcone, Rocco Chinnici capo del pool antimafia dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo, il poliziotto Ninni Cassarà. Una foto li ritrae tutti e tre insieme. A tutti e tre restano pochi anni.
Il passaggio dalla Palermo ricca e vivace della fine dei Settanta a quella teatro di mattanza è scandito dai delitti politici – a cominciare dall’assassinio di Piersanti Mattarella, «Dc galantuomo» (6 gennaio 1980) – e dall’inizio della guerra di mafia, segnato dall’assassinio di Stefano «Falco» Bontade, nel giorno del suo quarantaduesimo compleanno (23 aprile 1981). Sono i mesi in cui gli strilloni vendono i giornali per strada gridando: «Quantu ’nni murieru... quantu ’nn’ammazzaru... L’Ora, morti e feriti... Accattativi ‘u L’Ora...». Il cadavere di Giangiacomo Ciaccio Montalto, sostituto procuratore della Repubblica, «uno dei pochissimi magistrati impegnati nelle indagini contro la mafia trapanese», lasciato tutta la notte nella sua Golf bucherellata dai proiettili (26 gennaio 1983); a mezzogiorno è ancora lì, a Valderice, un posto meraviglioso tra il mare e la montagna di Erice, abbandonato in strada da formalità lentissime e dalle difficoltà investigative: nessuno parla, nessuno ha visto o sospettato nulla; «Sì, gli spari... stanotte... ma pensavamo fossero cacciatori di frodo...».
Il capitano Mario D’Aleo, «un ragazzo alto e gentile ma pure deciso e tenace», comandante a Monreale, viaggiava in Golf. Lo uccidono all’imbrunire del 13 giugno 1983, alla periferia Sud di Palermo, insieme con l’appuntato Giuseppe Bommarito e il carabiniere semplice Piero Morici. La sua colpa è aver fatto arrestare Giovanni Brusca, figlio di don Bernardo, nipote di don Emanuele. I Brusca l’avevano avvertito: «Capitano, lei ce l’ha con noi. E farà una brutta fine». Giovanni, «giovane mafioso in carriera, lo ritroveremo, tempo dopo, libero e spietato assassino, sino alla strage Falcone». Don Bernardo resterà a lungo indisturbato.
Ma il peggio arriva il 29 luglio. Pochi minuti dopo le 8 del mattino, una Fiat 126 carica di esplosivo esplode accanto all’auto di Rocco Chinnici. Con lui muoiono i due carabinieri di scorta e il portiere del palazzo. Quindici feriti, calcinacci dappertutto, decine di palazzi danneggiati, un cratere per strada. La città appare sotto choc. Però i cronisti de «L’Ora» raccolgono la testimonianza di un inquirente: «Siamo in guerra, ma per lo Stato e per le autorità di questa città, di questa regione, è come se non succedesse mai niente. Quando nel luglio ’79 assassinarono Boris Giuliano, ci vollero ben quattro mesi e mezzo prima che mandassero il nuovo capo della squadra mobile. I mafiosi uccidono con mitra e tritolo. Noi rispondiamo con le parole. Loro sono migliaia. Noi poche centinaia. Noi facciamo i posti di blocco spettacolari in pieno centro. Loro passeggiano tranquillamente per corso dei Mille, a Brancaccio, all’Uditore. E Palermo non solo non collabora con la polizia e con i carabinieri, ma intralcia. Ostacola. Protegge per paura o per connivenza. Lo sapete che in questa città ci sono centinaia di latitanti che godono dell’appoggio della maggior parte dei palermitani? Avete visto quanta gente è venuta ai funerali di Chinnici? C’erano solamente poliziotti, carabinieri, finanzieri...».
Ma le pagine più dure e terribili sono quelle dedicate all’assassinio di Carlo Alberto dalla Chiesa. Qui la condanna a morte di un uomo di Stato viene raccontata con la stessa lucida precisione con cui Calabrò smonta e analizza il meccanismo della mafia e del suo potere sulla Sicilia. Anche Cosa Nostra nasce e si sviluppa in quell’intreccio tra economia e cultura, tra i meccanismi di produzione e distribuzione della ricchezza e la mentalità di un popolo: un legame che altrove è motore di sviluppo e di progresso, al cui studio Calabrò ha dedicato molta parte del suo lavoro e dei suoi libri. Sino all’epilogo, in cui l’autore – dopo la svolta del maxiprocesso, la morte di Falcone, gli arresti dei vecchi boss, la crisi del welfare mafioso – mette in guardia dai pericoli ancora vivi, forte della lezione di Sciascia: «Temo la mafia proprio quando è silente, quando non spara».