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 2016  gennaio 30 Sabato calendario

Dal Giappone agli Usa, sui tassi manca una regia

Solo la settimana scorsa il governatore della Banca del Giappone aveva dichiarato davanti al Parlamento di Tokyo che non avrebbe ridotto i tassi d’interesse. Ma proprio ieri Haruhiko Kuroda ha preso tutti di sorpresa tagliando il costo del denaro e portandolo sotto zero. È una testimonianza delle difficoltà in cui affondano i piedi quasi tutti i responsabili delle banche centrali mondiali, poco abituati a fare i conti con un ambiente deflazionistico in gran parte determinato da fattori estranei al loro controllo e alle leve di singoli Stati. Il Giappone è in questo senso il Paese più significativo. Ci sono voluti venti anni di deflazione per violare alcuni tabù dottrinali e impostare una politica monetaria davvero espansiva. Eppure i successi sono stati temporanei. La fuga di capitali dalla vicina economia cinese ha contribuito al rafforzamento dello yen e al nuovo calo dei prezzi. Il governatore Kuroda ha dovuto reagire in modo insolito, fino a tradire la fiducia dei parlamentari nipponici e prendere di sorpresa gli investitori.

Tra gli economisti monetari favorevoli alle politiche di allentamento quantitativo – un partito maggioritario ma non assoluto – c’è la convinzione che per invertire le aspettative deflazionistiche sia necessario ricorrere a interventi molto determinati, tali da creare overshooting cioè aumenti anomali nei prezzi. Per farlo i governatori devono ricorrere a ogni stratagemma, compreso quello di prendere di sorpresa consumatori o investitori, rivolgendo le proprie scelte quindi più al pubblico globale che ai decisori politici nazionali.
Un approccio graduale non sarebbe sufficiente perché quello che si vuole spostare è un iceberg gigantesco: un’inflazione troppo bassa ha infatti una corrispondenza molto stretta con l’impiego incompleto dei fattori produttivi e in particolare del lavoro. Se non si riesce a creare domanda persistente, anche attraverso politiche pubbliche, è difficile che la ripresa dei prezzi si sostenga. La Banca del Giappone si starebbe augurando per esempio che il nuovo e inatteso stimolo monetario induca ad aumenti salariali nel round di questa primavera, inoltre ha evitato di applicare i tassi negativi alle riserve bancarie già esistenti in modo che il calo dei tassi non si trasmetta alla gran parte dei depositi riducendo il reddito disponibile delle famiglie. 
Ma i fattori che sfuggono al controllo delle politiche economiche nazionali sono ormai troppi. La deflazione giapponese è certamente un fenomeno locale, ma i fattori che lo determinano ora sono principalmente esogeni. Il riallineamento del gigante cinese da un’economia di investimenti e manifattura a una di consumi e servizi è un fenomeno che va oltre il continente. Così come il calo dei prezzi delle materie prime e ovviamente il crollo del petrolio. Tutto ciò avviene in una fase in cui l’intensa competizione globale preme su prezzi e salari ovunque e ancor più in Asia dove le catene produttive sono scomposte tra i Paesi che si affacciano sul Pacifico in ragione di micro-convenienze di costo.
In fondo non sono diversi i fattori che hanno determinato il rallentamento dell’economia americana emerso ieri dai dati sul Pil. Mentre i consumatori americani continuano a sostenere la domanda, gli investimenti sono scesi del 2,5% in particolare come conseguenza della revisione della spesa da parte delle società del comparto energetico messe fuori gioco dal calo del petrolio. Di fatto anche la Federal Reserve ha dovuto rivedere in pochi mesi i propri piani di normalizzazione della politica monetaria. Come la Banca del Giappone, anche il board dei governatori americani ha dovuto riconoscere che ci vorrà molto tempo prima di riportare la politica monetaria a condizioni normali.
La decisione della Federal Reserve e quella della Banca del Giappone rispondono dunque agli stessi segnali: l’indispensabile normalizzazione dei tassi d’interesse resta un auspicio di pochi ragionevoli economisti, ma sembra fuori portata in un mondo scosso da enormi movimenti di capitale. È improbabile che un tale impaccio finisca bene senza uno sforzo di coordinamento tra le economie globali. 
Anche se le banche centrali seguono lo stesso percorso, il rischio ovviamente è che le strategie di stimolo monetario non siano coordinate e che anzi tendano ad annullarsi. Il rallentamento americano viene attribuito in parte all’apprezzamento del dollaro e al disavanzo delle partite correnti che ne sarebbe risultato. La nuova mossa giapponese potrebbe scatenare tentazioni di rivalsa in quella che comunemente viene definita una guerra delle valute. Anche l’allentamento quantitativo europeo aveva avuto i maggiori effetti attraverso il canale del tasso di cambio più leggero, ma il cambio effettivo dell’euro è già ritornato su livelli prossimi a quelli di due anni fa.
Il coordinamento delle economie mondiali non può essere lasciato ai governatori o ai tassi di cambio. La speciale situazione attuale di tassi d’interesse azzerati in gran parte del mondo e di inflazione molto bassa consente di programmare interventi diversi per contrastare una debolezza economica che è condivisa da tutti i Paesi. In fondo le economie emergenti o in sviluppo rappresentano oggi il 70% della domanda globale. Sono circostanze straordinarie per mettere in comune gli obiettivi economici di tutto il mondo e per mobilitare a buon fine finanziamenti a basso costo per progetti e infrastrutture comuni. Senza ostinarsi in distinzioni di ideologia economica: forse la stagnazione secolare non esiste, ma i suoi effetti non lo sanno.