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 2016  gennaio 30 Sabato calendario

Il Giappone spinge i tassi d’interesse sottozero

Il naufragio dell’Abenomics costringe il Giappone ad allentare nuovamente la politica monetaria spingendo i tassi d’interesse sottozero. Ieri mattina una raffica di dati macroeconomici negativi ha dato un buongiorno amaro al governo di Tokyo, impegnato da anni in un’estenuante lotta contro la stagnazione. A dicembre tutto è filato storto: la spesa anno su anno delle famiglie è precipitata (-4,4%); la produzione industriale ha ingranato la marcia indietro (-1,4%); la disoccupazione è rimasta inchiodata al 3,3%.
Ma a preoccupare di più la squadra del premier Shinzo Abe è stato l’andamento dell’inflazione che continua a non decollare. A dicembre l’indice dei prezzi al consumo ha registrato un flebile incremento dello 0,2%, ben lontano dal tasso programmato del 2%. Il messaggio è chiaro: se i prezzi non accennano neppure a surriscaldarsi, vuol dire che i consumi e gli investimenti restano depressi.
Sulla scorta degli ennesimi segnali di debolezza congiunturale, alla Bank of Japan non è rimasto che provare a ridare fiato al sistema pompando nuova liquidità. Accodandosi a quanto già fatto da Svizzera, Danimarca e Svezia, la banca centrale nipponica ha spinto il costo del denaro in territorio negativo tagliando da +0,1 a -0,1% il tasso d’interesse sui depositi detenuti dagli istituti di credito nazionali presso la Boj. Da lunedì, quindi, per parcheggiare i loro eccessi di liquidità nelle casse della Bank of Japan, le banche dovranno pagare un differenziale negativo. L’auspicio del governatore dell’istituto di emissione, Haruhiko Kuroda, è che questa nuova, paradossale situazione creditizia disincentivi le banche a tenere fermi i soldi e le spinga a trovare nuovi impieghi nell’economia reale. Insomma, a prestare denaro a imprese e famiglie.
Sarà davvero questo l’effetto della mossa della Bank of Japan? Sono pochi a crederci veramente. Forse anche all’interno dello stesso governo di Shinzo Abe. Un governo che, fin dalla salita al potere nel 2012, ha puntato su una miscela di politica monetaria e fiscale espansiva per rilanciare la crescita e gli investimenti privati. L’Abenomics, appunto. Ma i risultati, come dimostrano i dati poco incoraggianti di ieri, sono stati modesti. D’altronde il Giappone, essendo stato il primo grande Paese sviluppato al mondo a comprimere fino quasi a zero il costo del denaro per fronteggiare una severa crisi strutturale (è ormai dalla fine degli Anni 90 che l’economia del Sol Levante annaspa), sa bene che se il cavallo non ha sete è inutile continuare a riempirgli l’abbeveratoio.
Il profondo malessere dell’economia nipponica non deriva certamente da una scarsità di credito. Le ragioni stanno altrove. Stanno nelle ferite rimaste aperte tra i giapponesi dopo l’esplosione della bolla speculativa degli Anni 80 (oggi l’indice della Borsa di Tokyo quota meno della metà rispetto ai massimi di 27 anni fa) che sottotraccia continuano a minare la fiducia della gente. Stanno nella persistente deflazione che spinge privati e imprese a rinviare nel tempo le decisioni di spesa e di investimento. Stanno, forse, anche nei limiti fisici e demografici di un Paese che invecchia sempre di più e non ha non più spazi da riempire con i beni che dovrebbe consumare voracemente per alimentare il ciclo economico.