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 2016  gennaio 28 Giovedì calendario

Piccole aziende per piccoli dirigenti. In Italia non ci sono più manager

Se cercate sintomi del declino italiano, guardate cosa sta succedendo alle Assicurazioni Generali: l’amministratore delegato Mario Greco ha detto che non è disponibile a un nuovo mandato (niente dimissioni, così salva la buonuscita) e andrà alla svizzera Zurich da maggio. Nel frattempo resta alla guida del gruppo di Trieste. Segno che non ha firmato un patto di non concorrenza. Doveva avere davvero un grande potere contrattuale quando ha negoziato le sue condizioni. D’altra parte, chi sono gli altri grandi manager italiani in competizione con lui? Greco diventerà, come Vittorio Colao scappato dalla Rcs nel 2006 per fare il capo globale di Vodafone, uno di quei nomi da evocare quando si vuole citare un manager italiano di successo. E oltre a loro? Il vuoto. Certo, ci sono Diego Piacentini, che è uno dei vicepresidenti di Amazon, e Luca Maestri direttore finanziario di Apple: grandi carriere, grandissime responsabilità, ma non sono ancora capi azienda. L’impressione è che in Italia non si trovino più manager: ora che il governo Renzi cerca di mettere insieme una cordata di imprenditori italiani per gestire l’Ilva, il nome che circola per la guida del gruppo è quello di Paolo Scaroni, quasi 70 anni, una vita tra Enel ed Eni. E il piano industriale di cui si discute è ispirato alle idee di Enrico Bondi, 82 anni.
Quando alcuni grandi gruppi hanno dovuto cercare sostituti di figure carismatiche, hanno scelto seconde linee interne, ma con un profilo pubblico molto più discreto dei loro predecessori. Chi si ricorda il nome del successore di Andrea Guerra a Luxottica? Nelle banche, a Unicredit dopo Alessandro Profumo è arrivato il discreto Federico Ghizzoni. Dopo aver guidato Intesa Sanpaolo, Corrado Passera è diventato ministro e ora spera di fare il sindaco di Milano, difficile che il suo erede, Carlo Messina, possa coltivare le stesse ambizioni.
“Le grandi scuole stanno declinando: un tempo i manager uscivano dalla Pirelli, dalla Fiat, dalle partecipazioni statali, anche la siderurgia o le telecomunicazioni producevano manager di livello, oggi che cosa è rimasto?”, dice Sandro Catani, dirigente d’impresa, saggista, che studia le politiche retributive per motivare le prime file manageriali. Se guardiamo le tradizionali fucine di management è rimasto ben poco: la Pirelli è cinese, i Moratti hanno venduto ai russi, i Pesenti ai tedeschi, la Fiat è sbilanciata verso di Detroit, le partecipazioni statali non ci sono più, la Telecom è di fatto controllata dai francesi (con Vincent Bolloré, regista anche della caduta di Greco, tramite l’influenza che esercita su Mediobanca, la controllante delle Generali). Per una certa fase, le società di consulenza hanno nascosto il declino di quelle fucine di competenze che erano le grandi imprese del capitalismo pubblico e privato: McKinsey, Boston Consulting Group, Bain. Hanno prodotto manager non specialisti, abili a smontare e rimontare conti economici e strutture finanziarie, abili gestori (anche Passera e Profumo sono passati da McKinsey) applicabili a qualunque business.
Ma oggi il vuoto diventa più evidente. Soltanto l’Eni conserva traccia delle sue strutture di formazione interna, e infatti il suo amministratore delegato Claudio Descalzi è forse il più simile, per visione strategica, a quelli della generazione precedente (anche se molto meno politico e privo di velleità da guru). Nel pubblico non si riescono a trovare capi azienda all’altezza delle sfide, basta guardare il caos al vertice della Sogin (gestione delle scorie nucleari) che da mesi ha un amministratore delegato dimissionario e non rimpiazzato.
Gli autodidatti ci sono sempre stati: “Non sono laureato, non ho fatto una business school, a vent’anni facevo il giornalista e partendo da lì sono arrivato a fare il manager. Forse anche per questo sono sempre stato una spugna: se mi passa vicino una cosa la imparo”, ha spiegato Lorenzo Pellicioli a Bernardo Bertoldi e Fabio Corsico nel libro Manager di famiglia. Ma Pellicioli, altro nemico di Greco nel cda delle Generali, per fare il salto di qualità ha dovuto attraversare grandi gruppi, da Costa crociere a DeAgostini. In assenza di giganti d’impresa nel pubblico e nel privato, i campioncini del management italiano si possono trovare soltanto là dove una volta mai si sarebbero andati a cercare. In aziende così piccole o locali che di rado conquistano spazio sui giornali.
Se chiedi in giro chi sono i Passera, i Profumo, i Bernabè della generazione successiva, i nomi che girano sono quelli di Angelos Papadimitrou che guida Coesia a Bologna, di Luciano Santel, chief corporate officer dei piumini Moncler, di Andrea Zappia di Sky Italia.
L’evidente eccezione a questa lista di uomini azienda efficaci e discreti, con orizzonti più limitati ma non meno complessi dei predecessori, è Sergio Marchionne. Ma il giudizio sul capo di Fiat-Chrysler è quanto meno oggetto di dibattito. E comunque anche il suo ciclo sta per chiudersi, pare nel 2018. Perché Marchionne non è il primo manager di un’Italia globalizzata, in ripresa, come piace credere a Renzi. Ma l’ultimo di un ceppo manageriale ormai secco.