la Repubblica, 28 gennaio 2016
Perché la Apple deve tornare a farci sognare
Evoluzione e non più rivoluzione. Il momento difficile della Apple potrebbe esser riassunto così. In quel cambio di filosofia che ha segnato la sua storia recente. Poche vere innovazioni, tanti piccoli cambiamenti progressivi. Ha funzionato fin quando il mercato degli smartphone galoppava, ma evidentemente è una strategia che ora non paga più.
Gli ultimi risultati finanziari di Tim Cook & Co. deludono: si attendevano vendite di iPhone pari a 75,5 milioni di pezzi, sono state “solo” di 74,7 milioni. Le stesse, o quasi, del trimestre chiuso a inizio 2015. È andata peggio all’iPad, che registra un crollo del 25 per cento e ai Mac che invece retrocedono di quattro punti.
Doppiare il successo dell’iPhone 6, con un modello di passaggio come il 6S, non è facile. Così come non è semplice mantenere una strategia di business simile a quella della moda e del lusso, anche se si hanno fra i propri manager Paul Deneve e Angela Ahrendts arrivati da Saint Laurent e Burberry.
Sembra che alla Apple abbiano preso per buone le parole di Katsuaki Watanabe, ex amministratore delegato della Toyota, pronunciate ad Harvard nel 2007. «Non ci sono geni nella nostra compagnia. Ma miglioriamo ogni giorno qualcosa. E dopo 70 anni quei piccoli miglioramenti, accumulandosi, diventano una rivoluzione». Peccato che nell’hi-tech non si possano aspettare 70 anni. «È un mercato che complessivamente rallenta», spiega Marta Valsecchi, a capo dell’osservatorio “mobile economy” del Politecnico di Milano. «I tablet in special modo. Le praterie di uno o due anni fa, quando erano in tanti a non avere uno smartphone, sono scomparse. Si vende ancora, ma si cresce poco».E lì dove si potrebbe crescere l’economia rallenta e la competizione è spietata. Mentre Apple si concentrava sul suo smartwatch e sull’iPad gigante, le multinazionali cinesi hanno iniziato a mangiarsi fette sempre di mercato. A differenza delle case coreane, invece di cercare di copiare le strategie di Cupertino, hanno sfruttato il suo principale punto di forza: i margini. Un iPhone 6S Plus, nella versione da 16gb, ha un costo di costruzione stimato dalla Ihs di 231 dollari. Il prezzo finale? Negli Stati Uniti è di 749 dollari, da noi di 889 euro. Questo significa che altri hanno la possibilità di proporre telefoni con caratteristiche tecniche alte a prezzi ben più bassi. E se è vero che stiamo parlando di telefoni Android, universo separato da quello Apple, è altrettanto vero che dovendo comprare uno smartphone oggi le alternative all’iPhone sono tante e i primati della mela molto più sfumati che in passato. Huawei, è al terzo posto dopo Samsung e la stessa Apple, in Italia è cresciuta addirittura di cento punti percentuali nel 2015. Xiaomi, nata cinque anni fa, è al quinto posto globalmente e in Cina ha superato la Samsung. Margini ridotti all’osso, vendite online per evitare intermediazioni, marketing virale.
Alla Apple parlano di «contesto macroeconomico molto difficile» e fanno giustamente notare il «fatturato record» di 75,9 miliardi di dollari. Viene però in mente quel che racconta Regis McKenna, l’inventore del logo della Apple nel ‘77 e della sua strategia di comunicazione, in Steve Jobs: The Man in the Machine, documentario del premio Oscar Alex Gibney uscito qualche mese fa. «La Apple è come un serial. È una storia, una narrazione, che ruota attorno al suo fondatore e alle sue idee». La forza è nell’identità che crea, costruita partendo dalla persona di Jobs e dalle sue visioni. Visioni che erano sempre un passo avanti, a tal punto da riuscire a forgiare il presente facendo la fortuna della sua compagnia. Ecco, se la Apple dovesse tornare a far sognare, sarebbe difficile per chiunque tenerle testa. Al di là del contesto economico, facile o difficile che sia.