La Stampa, 28 gennaio 2016
Un déjà vu al Senato
Per l’immagine sulla lapide del Senato si suggerisce quella del capogruppo di Forza Italia, Paolo Romani, che ieri gironzolava per l’aula masticando un chewing gum. Una volta bastava per essere cacciati dall’aula della seconda elementare, e che oggi sia tollerato nell’aula di Palazzo Madama spiega meglio – dei milioni di parole spesi ieri, e in questi anni – non si dice la perdita di sacralità, ma di un grano di contegno. Le fatiche mandibolari di Romani erano però produttive quanto le fatiche parlamentari di questi senatori che sono riusciti a ottenere un’intera giornata di discussione di cui si sarebbe potuto scrivere il resoconto (chewing gum escluso) prima che cominciasse. Anzi no, c’è stata un’altra simpatica novità: siccome le mozioni di sfiducia erano due, una dei cinque stelle e l’altra di Lega e Forza Italia, e i proponenti non le hanno volute associare temendo che perdessero in purezza, le votazioni sono state due, e sempre secondo le regole bacucche della chiama nominale che prevede il transito dei votanti sotto il banco della presidenza, a dire sì o no, e che prevede un secondo turno per chi al primo è irrintracciabile. Dunque: due votazioni, quattro giri. Sembrava il gran premio di Montecarlo, concluso in serata dopo sei ore di dibattito che non aveva certo l’obiettivo (irraggiungibile) di mandare a casa il premier, ma di esibire l’irriducibilità delle varie opposizioni e di dimostrare il passaggio in maggioranza il gruppo dell’ex berlusconiano Denis Verdini, che sin qui aveva cercato di esibire una verginità: «Non abbiamo mai votato la fiducia».
Davanti a un’assemblea così prevedibile e di così poco nerbo, Matteo Renzi ha vinto con la mano sinistra e senza negarsi lampi sprezzanti, che non contribuiscono a un adeguato fine vita dell’istituzione. Ha irriso le opposizioni perché per quanto chiasso facciano alla fine c’è sempre qualche altro senatore che arriva a rafforzare la maggioranza; ha irriso Gaetano Quagliariello, ex berlusconiano, ex alfaniano, ora in Gal (grandi autonomie e libertà) che aveva detto «non mi piace vincere facile». «Mi sa che non le piace vincere proprio», ha detto Renzi. E in effetti Quagliariello, uno dei senatori più strutturati, era col governo fino a venti giorni fa e già ieri spiegava le inderogabili ragioni della caduta del presidente del Consiglio, arrivando a rivalutare l’articolo nel quale Ferruccio de Bortoli (settembre ’14) sentiva nell’esecutivo Renzi odore di massoneria. Un fiuto non fulmineo, ed è una condizione collettiva, visto che l’unico ad affrontare per qualche minuto il vero tema del giorno – l’accoglienza particolarmente benevola al presidente iraniano Hassan Rohani – è stato Maurizio Gasparri: «Nel Giorno della Memoria avete celebrato un Capo di Stato per non offendere il suo antisemitismo». Ecco, forse sarebbe stato un argomento più impegnativo ma anche più sugoso, e invece il programma ha previsto, per bocche leghiste, vendoliane, a cinque stelle e soprattutto forziste, un elenco di accuse a Renzi che andava dalle ambizioni dittatoriali all’attacco alla Costituzione più bella del mondo, dal conflitto d’interessi fino al piduismo, e cioè il riciclaggio di tutto l’armamentario usato un tempo dalla sinistra contro Silvio Berlusconi. Per la reciprocità il capogruppo del Pd, Luigi Zanda, ha spiegato che «non è così che si fa l’opposizione». E lì pare che a Romani sia andato di traverso il chewing gum.