MilanoFinanza, 27 gennaio 2016
Tutta colpa della Fed?
Non molto tempo fa la riunione della Federal Reserve di ieri e oggi non sarebbe stata considerata un evento. Dopo avere avviato l’aumento dei tassi in dicembre la banca centrale avrebbe dovuto prendersi una pausa in gennaio per comunicare più avanti altri incrementi. Ora, dopo un inizio d’anno difficile, molti investitori sperano che la Fed ci ripensi in merito ai tre o quattro aumenti dei tassi previsti per quest’anno.
Ciò fa crescere l’attesa su quanto la banca centrale statunitense dichiarerà nel comunicato che sarà diffuso oggi. L’attenzione ritrovata sulla riunione di gennaio illustra qualcosa che pochi, anche alla banca centrale, realmente riconoscono. Una ragione importante alla base del crollo dei mercati e del seppur contenuto rischio di recessione è proprio la virata della Fed verso una politica monetaria meno espansiva.
Come può un aumento di un quarto di punto dei tassi – il totale che la Fed finora ha effettuato – mandare in tilt i mercati e minacciare di gettare gli Stati Uniti in recessione? La maggior parte degli analisti accusa l’ansia per la Cina, i mercati emergenti e il petrolio, tutti fattori che non hanno una diretta correlazione con la Fed, la cui influenza va però ben oltre i tassi a breve termine. Piuttosto, si fa sentire anche una costellazione di variabili finanziarie: il valore delle azioni, i rendimenti delle obbligazioni societarie, i tassi di cambio e soprattutto la propensione al rischio, fattore però meno quantificabile.
Diversamente dai tassi a breve termine, la Fed non detta l’andamento di queste condizioni più generali. Più che un direttore d’orchestra, la banca centrale è il leader di una folla che influenza ma non controlla. Da qui scaturisce il dilemma: anche se la Fed fissasse i tassi di interesse in maniera corretta in relazione alle esigenze dell’economia, i mercati, che reagiscono quotidianamente, ne vanificherebbero i piani. Negli Stati Uniti i cicli economici, i normali investimenti e gli eccessi finanziari hanno sempre coesistito, come dimostrano i casi dei prestiti bancari ai Paesi meno sviluppati negli anni 70, gli immobili commerciali negli anni 80, le azioni e le obbligazioni emesse da società hi-tech, media e tlc negli anni 90 e i titoli subprime garantiti da ipoteca negli anni 2000. Proprio come la Fed non determina l’ampiezza del boom, non può controllare la portata del suo contrario.
E l’ultimo ciclo segue il modello, ma presenta un’importante differenza. Dopo il taglio che nel 2008 ha portato i tassi a breve termine negli Usa quasi allo zero, l’istituto ha dovuto fare affidamento su altre forme di stimolo: l’acquisto di bond e la promessa di non alzare i tassi, che hanno funzionato per lo più aumentando la fiducia e la propensione al rischio nei mercati finanziari. Tuttavia, facendo così tanto affidamento su condizioni finanziarie più generali per trainare la crescita, rispetto ai cicli precedenti la Fed ha ancora meno da dire circa l’esito. «Se un istituto centrale dipende dalla crescita della propensione al rischio per alimentare la spesa, va incontro a un grave problema», commenta Peter Berezin di Bca Research. «Non si può semplicemente aumentare molto l’assunzione di rischio. Quando gli investitori si ritirano, lo fanno molto bruscamente». Niente di tutto questo significa che la Fed si sbagliava a perseguire una politica monetaria aggressiva fin dalla crisi finanziaria: ha portato la disoccupazione sotto il 5%, risultato per il quale è quasi certamente valsa la pena di assumersi i relativi rischi. Tuttavia, quando il tasso di interesse neutro, che mantiene l’economia in piena occupazione, è così basso, gli sforzi della Fed per mantenere la crescita possono facilmente tradursi in eccessi finanziari che possono destabilizzare al primo accenno di stretta monetaria. Questo lascia alla Fed poco margine di errore e poche opzioni per tamponare qualsiasi ferita. «Il tasso non è più neutrale perché non è coerente con la stabilità di lungo periodo», continua Berezin. «Si finisce per non avere alcun tasso neutrale. E allora che cosa potrebbe fare una banca centrale? Più nulla». Il boom delle materie prime ha avuto reali fattori catalizzatori, vale a dire la rivoluzione dello shale gas negli Usa e la Cina, ma sono le banche centrali che hanno spianato la strada. Gli investitori, alla ricerca di qualcosa di meglio dei rendimenti irrisori sui depositi bancari o sui titoli di Stato, hanno investito a piene mani su mercati emergenti e imprese del settore energetico. Allo stesso modo il sell-off di petrolio e materie prime trova origine in fattori reali, in particolare nella decisione saudita del 2014 di non difendere più il prezzo del petrolio, tuttavia è stato amplificato dall’inversione del flusso di denaro agevolato, catalizzato dalla determinazione della Fed, a partire da inizio 2015, a procedere verso una normalizzazione dei tassi. I tassi e i rendimenti obbligazionari a breve termine non rilevano quanto la Fed abbia effettivamente stretto i cordoni. Da fine 2014 il dollaro è salito più del 20% e i premi di rischio, o i rendimenti su bond con rating junk rispetto ai più sicuri buoni del Tesoro, hanno registrato un balzo di tre punti percentuali. E lo S&P 500 è in ribasso di oltre l’8,2% da inizio anno. D’altra parte, anche nella confusione e nella fuga di capitali innescata dalla svalutazione in Cina c’è lo zampino della Fed. Lo yuan è stato sostenuto perché il dollaro, al quale era strettamente ancorato, è salito sulle aspettative per la politica di normalizzazione della Fed. Ciò ha impartito la spinta deflazionistica che le autorità cinesi hanno cercato di contrastare.
Per quanto un aumento di un quarto di punto dei tassi di interesse non dovrebbe gettare gli Stati Uniti in una recessione, un inasprimento generale delle condizioni finanziarie merita attenzione. Jesse Edgerton di Jp Morgan Chase stima che i recenti indicatori di economia reale, come il clima di fiducia delle imprese e le licenze edilizie, implicano una probabilità di recessione del 21% per i prossimi dodici mesi, leggermente al di sopra della media storia annuale (18%), ma gli indicatori finanziari come le azioni e i corporate bond collocano la probabilità tra il 30 e il 40%. Alcuni sostengono che gli eccessi finanziari degli ultimi anni non abbiano prodotto alcun vantaggio economico, per cui la loro fine non comporterà alcun reale costo economico, ma forse si tratta di una lettura un po’ troppo ottimista. Secondo uno studio di Jeremy Stein della Harvard University e di David López-Salido e Egon Zakrajek della Fed, quando il sentiment sui corporate bond, come riflettono gli spread tra i rendimenti di questi e dei buoni del Tesoro, è insolitamente ottimista, la crescita è sensibilmente più debole e la disoccupazione più elevata nei due o tre anni successivi, perché tale ottimismo generalmente fa marcia indietro. Questa riflessione dimostra che gli investitori in obbligazioni non prevedono una flessione dell’attività, ma la causano. Tali dinamiche potrebbero andare ora in scena sui mercati, ma la contrazione non deve trasformarsi in una recessione: è qualcosa che i membri della Fed devono soppesare in sede di valutazione sul segnale da inviare oggi ai mercati.
(Traduzione di Giorgia Crespi
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