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 2016  gennaio 27 Mercoledì calendario

In morte di Marvin Minsky, padre dell’intelligenza artificiale

Edoardo Bencivelli per il Corriere della Sera
È morto a Boston a 88 anni Marvin Minsky, ritenuto universalmente uno dei padri della cosiddetta intelligenza artificiale (AI), anche se ha, fra le altre cose, «regalato» alla biologia cellulare niente meno che il microscopio confocale, uno strumento di osservazione oggi insostituibile. Laureato in matematica, ha trascorso quasi tutta la vita al Mit di Boston, dove dirigeva da anni il famosissimo Media lab, fucina d’idee e di uomini nel campo della robotica e della comunicazione. L’ho incontrato diverse volte e fra queste metto un colloquio memorabile avuto con lui a Bergamo Scienza. Mi hanno sempre impressionato l’intelligenza, l’ironia e la vastità dei suoi interessi scientifici, ma anche filosofici. In quell’occasione parlò, infatti, della possibile emotività nei computer. Oggi non si parla più molto dell’intel-ligenza artificiale, ma se ne è parlato tanto in passato, e ora la si considera più come una pos-sibile minaccia per noi e la nostra intelligenza. «Intelligenza» in italiano significa di solito grande intelligenza, ma in inglese intelligence significa solo capacità di comprendere o, meglio, di risol-vere problemi. Intelligenza artificiale sta a indicare tutto ciò che si può fare con le macchine nella direzione di risolvere questo o quel problema teo-rico. Niente paura quindi — tanto alle macchine manca e mancherà la coscienza — ma gratitudine a Minsky per il contributo alla comprensione dei meccanismi logici e, indirettamente, di quelli che hanno luogo nel nostro cervello. Un grande, pro-babilmente della stessa intelligenza di Einstein, ma lontano dai media, specialmente italiani, Min-sky fu anche consulente di 2001: Odissea nello spazio , ed è citato sia nel film di Stanley Kubrick che nel libro di Arthur C. Clarke, opera in cui è centrale il rapporto tra gli astronauti e il computer di bordo Hal 9000.

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Giorgio Metta per il Giornale

Marvin Minsky – scomparso domenica sera a Boston all’età di 88 anni a causa di una emorragia cerebrale – è stato uno dei padri fondatori dell’intelligenza artificiale, uno scienziato eclettico che ha saputo bilanciare la tecnologia e la filosofia con una passione per i problemi più profondi della scienza. Aveva dedicato la sua vita al problema dell’intelligenza passando si fa per dire per la realizzazione del primo head mounted display, del primo microscopio confocale (che supera i limiti di quelli tradizionali e dal quale si è poi derivato quello laser utilizzato oggi), del linguaggio di programmazione grafico Logo.
Aveva inoltre costruito già nel 1951 la prima rete neurale a connessioni casuali capace di apprendimento (chiamata SNARC). È ricordato soprattutto per aver coniato il termine «intelligenza artificiale» (IA) durante il convegno di Dartmouth College nel 1956 quando i computer erano ancora agli albori (insieme a un altro grande dell’IA, John McCarthy). Tra le sue teorie più influenti nel campo ricordiamo la «società della mente», secondo la quale il nostro cervello realizza i suoi comportamenti più sofisticati combinando un insieme di moduli elementari di per sé non intelligenti un insieme di soluzioni ad hoc che solo nella connessione tra loro realizzano alla fine l’intelligenza.
È interessante ricordare anche il suo libro sul percettrone che alla fine degli anni Sessanta aveva generato (erroneamente) quello che poi è ricordato come l’inverno dello studio delle reti neurali. Minsky aveva dimostrato alcune limitazioni nell’apprendimento tramite certe reti neurali che i più hanno generalizzato a qualunque rete neurale. In realtà questo libro è più citato che letto. Leggendolo infatti si capisce come Minsky non avesse mai posto l’accento sui limiti delle reti neurali se non in senso molto tecnico.
A dimostrazione di questo negli anni recenti si è avuta una rinascita di questi metodi. Alcuni nuovi algoritmi inventati per esempio da G. Hinton ci hanno permesso di fare passi avanti notevoli. Grazie alla disponibilità di grosse moli di dati per esempio immagini si è cominciato ad affrontare il problema del riconoscimento in maniera sistematica consentendo le prestazioni che vediamo ora nei nostri cellulari. Gli ultimi anni sono stati tutto un fiorire di soluzioni basate su quello che oggi è conosciuto come Deep Learning, che altro non è che una rivisitazione delle reti neurali di Minsky.
Il mondo dell’alta tecnologia è in fermento. Google ha comprato svariate startup e alcune ditte più grosse nel campo della robotica e dell’IA. Deep Mind basata a Londra è stata acquisita per più di 500 milioni di dollari. Deep Mind ha fatto vedere metodi basati sulle reti neurali che consentono a una macchina di giocare ai videogiochi imparando in maniera autonoma semplicemente giocando, sbagliando e cercando di migliorare il punteggio nel tempo. Le ricadute di queste tecnologie sono immense. Immaginiamo un futuro dove la robotica intelligente sarà diffusa come il telefono cellulare. Avremo robot assistenti che aiutano soprattutto le fasce meno fortunate della nostra società avanzata, prendendosi cura di anziani e malati, ma anche più semplicemente consentendoci una qualità della vita più elevata. I robot ci assisteranno in fabbrica, interverranno in caso di disastro naturale e in tutte quelle situazioni dove non sarà possibile mandare l’operatore umano. La robotica intelligente sarà in agricoltura per renderla più efficiente, economica e a impatto ambientale minore. La robotica realizzerà protesi intelligenti ed esoscheletri per la riabilitazione.
L’Italia potrebbe giocare un ruolo importante in questo campo dove vanta già diverse eccellenze. Se gli investimenti in ricerca continueranno potremmo evitare di perdere questo nuovo treno tecnologico fondamentale per rimanere uno dei paesi che contano nello scenario economico mondiale.

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Francesco Rigatelli per La Stampa
Un maestro, un collega, un compagno di vacanze in Liguria. Questo è stato negli anni l’informatico appena scomparso Marvin Minsky per il fisico Tomaso Poggio, direttore del «Brains, minds and machines» del Mit di Boston, il centro dove si punta a replicare i meccanismi del cervello per i robot.
All’inizio eravate come maestro e allievo?
«La prima volta che lo incontrai, nel 1973, lavoravo ancora al Max Planck Institute di Monaco di Baviera. Abituato alla formalità degli scienziati tedeschi, mi colpì Minsky in scarpe da ginnastica e con una cintura di corda costruita da solo. Ero poco più che studente, ma mi tenne a parlare per ore e mi accompagnò pure in albergo con la sua macchina scassata».
Poi avete lavorato insieme?
«Il mio primo posto al Mit, dove mi sono trasferito anni dopo, è stato il laboratorio sull’intelligenza artificiale da lui fondato. Nacque subito un’amicizia. Tra l’altro, mi capitò di occupare un ufficio che era stato suo. Anche le nostre mogli si conobbero e facemmo delle vacanze insieme a Levanto in Liguria».
Che tipo era Minsky?
«Amichevole e geniale. Sia lui sia sua moglie, un medico, erano stati bambini prodigio. Io mi sentivo come un ex allievo divenuto collega. Lui mi sembrava un bambino che giocava con le idee, un innamorato della scienza e del problema dell’intelligenza. Ha mantenuto fino all’ultimo quell’atteggiamento. Disponibile a discutere con tutti e tenero con i più piccoli, perché si era sempre sentito uno di loro, un bambino».
Cosa la colpiva dei suoi studi?
«Quella grande indagine sulla natura dell’intelligenza del saggio “The society of mind”: può essere considerata una moderna filosofia sociale sull’unione delle intelligenze e il primo sguardo di uno scienziato su un sistema di calcoli fattibili da un cervello o da una macchina».
E il dibattito odierno sull’intelligenza artificiale e sulle paure che evoca?
«Il libro “Perceptors” è un’analisi sulle reti neuronali che va proseguita. Funzionano i sistemi di riconoscimento vocale o di visione, come le auto che guidano da sole, ma non c’è un sistema completamente intelligente, capace di replicare la coscienza umana».
Ci sarà un giorno?
«Non è detto che l’uomo sia l’ultimo passo dell’evoluzione. È possibile che i robot ci rimpiazzino come specie dominante, ma il vero rischio a breve sono i posti di lavoro».