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 2016  gennaio 27 Mercoledì calendario

Peyton Manning, che era troppo vecchio già qualche anno fa e ora, invece, si gioca il Superbowl

Lui è di quelle storie che non finiscono mai. Pensi di essere arrivato all’ultima pagina e ti accorgi che c’è ancora un capitolo. Il «libro» di Peyton Manning è pieno di finali. Una è quella che lo vedrà in campo il 7 febbraio, a Santa Clara, California. Il giorno del Superbowl, quando l’America mette da parte la paura del terrorismo, l’economia che rallenta, la neve infinita: prende un secchio di popcorn e una tinozza di birra e si pianta davanti alla tv per vedere chi è più bravo a correre dall’altra parte del campo con un pallone ovale. Panthers da una parte, Broncos dall’altra. Carolina contro Denver. Il nuovo e il «vecchio». E Peyton la parola «fine» vicino al suo nome l’ha già letta decine di volte sui giornali.
Trentanove anni per un giocatore di football sono migliaia di botte sulle gambe e le spalle. Ossa fratturate e mesi di fisioterapia. Il collo di Peyton ha più cicatrici di un reduce del Vietnam. Lui viene da una famiglia di quarterback, anzi dalla «famiglia»: i Manning. Padre e due fratelli. Una casa solo per metterci i trofei. Il profumo del campo annusato prima ancora di andare a scuola. Peyton è l’americano della porta accanto, quello dei telefilm degli anni Sessanta. I capelli corti come un marine, il bicchierone di latte, il giornale davanti all’uscio di casa. Uno che parla poco e dice cose così scontate da sembrare originali. Un personaggio che non fa niente per esserlo. Finito persino negli episodi della famiglia Simpson, di sicuro più trasgressiva dei Manning. Loro vengono dal Profondo Sud. New Orleans, Louisiana, giusto perché lì ci giocava il padre che veniva da ancora più giù: Drew, Mississippi. Il fratello maggiore, Cooper, frenato da troppi infortuni ed Eli, il più piccolo, vincitore di due Superbowl. Quelli che spera di eguagliare anche Peyton, che un giorno di qualche anno fa Indianapolis mise alla porta: «sei troppo vecchio, man». Già.
Manning e gli altri. I rivali di Carolina che stanno diventando gli idoli dei bimbi. La corsa più entusiasmante è quella dopo aver fatto touchdown. Quando i giocatori dei Panthers si fiondano sulle tribune e fanno il passaggio più bello: regalano il pallone ai loro mini tifosi. Le tv vanno matte quando succede. Per rubare le espressioni dei bambini con il «regalo» in mano. Il loro eroe, un gigante con il casco e le spalle larghe come quattro ante dell’armadio della loro stanzetta, che fa slalom tra fotografi, giornalisti, steward è proprio lì davanti. Il sorriso che si mescola con il sudore. Lo stadio che esulta, la musica che arriva al cielo, le cheerleader che fanno a gara per farsi notare. E loro lì, con la maglietta azzurra dei Panthers, sempre di una misura più larga, il cappellino di lana, che d’inverno fa freddo anche in Carolina, e i guanti che provano a scaldare mani sempre troppo piccole. E quel momento che non basterà un anno di scuola per raccontarlo. Da esserne fieri più di un 8 in matematica. Il pallone del touchdown che tirerai fuori per le partite con gli amici e poi finirà nell’angolo più luminoso della tua stanza. Quando lo sport è questo, ringraziamo il Cielo che ci sia l’America a giocarlo.