la Repubblica, 27 gennaio 2016
«Frocio», «finocchio», «zingaro di merda»: ci stiamo accorgendo che siamo le parole che usiamo
De Rossi si è scusato perché non si deve dire “zingaro di merda” a un giocatore slavo. Sia esso o non sia esso di etnia Rom. Sarri si è scusato perché non si deve gridare “frocio” e “finocchio” all’allenatore avversario, sia esso o non sia esso omosessuale. È importante prendere per buone entrambe le scuse: contengono l’ammissione “ufficiale” che quegli insulti non sono affatto leciti, e sono aggravati, rispetto agli insulti ordinari, da un’intenzione sessista e razzista. Il coro di sghignazzi e di chiacchiere scontate, attorno ai due episodi, lascia il tempo che trova, e conta assai di meno. Conta meno la pigra diceria conservatrice che «sono cose che si sono sempre dette in campo», contano meno le risatine e gli ammicchi di chi pensa che in fondo è solo folklore, contano meno i tantissimi commenti sulla perdonabile venialità di quelle incazzature agonistiche, contano veramente zero le scemenze tifose che giustificano o condannano a seconda del colore della maglia. Tutta roba vecchia. Conta invece, e conta molto, la novità, e proprio perché è una novità: la coscienza faticosa e affaticata, anche in un ambiente non sempre pensoso come quello sportivo, che la mentalità sociale è in movimento, che ciò che un tempo si diceva gratis oggi ha un costo etico, che ci sono nuove libertà e nuove dignità e ne conseguono nuovi problemi, di pensiero e di linguaggio. Siamo le parole che usiamo.