Corriere della Sera, 27 gennaio 2016
I magistrati di Napoli scoprono che calciatori, dirigenti e procuratori frodavano il fisco con fatture false. Sessantaquattro indagati
La Procura di Napoli, quella che scoperchiò lo scandalo Calciopoli e ottenne condanne fino alla Cassazione, apre un nuovo capitolo dedicato al mondo del calcio professionistico e a molti dei suoi principali protagonisti. Stavolta, però, la vittima individuata non è il risultato, non è la classifica, non è il regolare andamento delle competizioni. La vittima, se le accuse reggeranno fino ad arrivare a un processo e a una sentenza, è lo Stato. Frodato ripetutamente e sempre in occasione della stipula di nuovi contratti tra giocatori e società.
False fatturazioni ed evasione fiscale sono i reati che il procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e i sostituti Stefano Capuano, Danilo De Simone e Vincenzo Ranieri hanno individuato a carico di 64 persone tra dirigenti, procuratori calcistici, giocatori ed ex giocatori. Nell’elenco ci sono nomi che riempiono quotidianamente le cronache sportive: Adriano Galliani (amministratore delegato del Milan) e Aurelio De Laurentiis (presidente del Napoli), Claudio Lotito (Lazio) e Maurizio Zamparini (Palermo), Alessandro Moggi e Alejandro Mazzoni (procuratori), Ezequiel Lavezzi (da cui nel 2012 sono partite le indagini) e German Denis (entrambi ex del Napoli: il primo oggi al Paris Saint Germain, l’altro all’Atalanta), Diego Milito ed Hernan Crespo (ex centravanti di Inter e Parma). E ancora: Enrico Preziosi (Genoa), Igor Campedelli (Cesena), Luigi Corioni (Brescia), Jean Claude Blanc e Alessio Secco (ex della Juventus), Edoardo Garrone (Sampdoria), Lillo Foti (Reggina), Aldo Spinelli (Livorno).
C’erano anche i nomi del presidente della Fiorentina Andrea Della Valle e dell’attaccante del Torino Ciro Immobile, ma la loro posizione va verso l’archiviazione perché dopo l’apertura delle indagini le soglie di punibilità per i reati a loro contestati sono state elevate e né l’uno né l’altro vi rientrano più.
Contestualmente all’avviso di chiusura indagini notificato ieri dalla Procura agli interessati, il gip Luisa Toscano ha disposto il sequestro di beni agli indagati per circa 12 milioni di euro, quantificando in questa cifra l’ammontare complessivo del danno arrecato allo Stato con le evasioni fiscali e le false fatturazioni. Le cifre più alte vengono contestate a Crespo, circa 2 milioni, a Moggi, oltre un milione, e a Galliani, 240 mila euro. Certamente i sequestri eseguiti sin da ieri all’alba dalla Guardia di finanza di Napoli, che ha anche condotto le indagini, non sono ancora riusciti a coprire l’intera cifra indicata dal gip, ma ancora una volta si è assistito a scene diventate ormai non più una rarità nel mondo del calcio italiano: l’ingresso delle forze dell’ordine nelle sedi delle società (e in questo caso anche negli uffici dei procuratori e nelle abitazioni dei calciatori coinvolti).
Eppure il calcio, rispettando anche qui una consuetudine, si autoassolve subito. Le reazioni degli indagati sono tutte dello stesso tenore. Moggi: «Non ho mai eluso le norme del fisco e dello sport, ho sempre rispettato i miei obblighi di contribuente». Galliani: «Vicenda assolutamente marginale e non fondata». De Laurentiis: «Tutta fuffa». E Lotito, attraverso una nota ufficiale della società: «La Lazio è certa di poter dimostrare agli inquirenti la piena regolarità del suo operato».
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Sarebbe potuta nascere in qualunque parte d’Italia questa inchiesta, perché coinvolge quarantuno società di A, B e serie minori e c’è dentro davvero di tutto. È nata a Napoli perché a Napoli si stava indagando su una serie di rapine subite da alcuni calciatori azzurri e in una telefonata intercettata gli investigatori hanno colto una frase sospetta. E partendo da lì sono arrivati molto lontano.
Era il 20 gennaio del 2012, e al telefono c’erano Lavezzi e il suo procuratore Alejandro Mazzoni. Il calciatore chiedeva notizie di un conto corrente aperto in Svizzera a favore di un suo collega, Cristian Chavez, all’epoca anche lui al Napoli, e Mazzoni rispondeva che si trattava di un conto della Hsbc che ormai era stato chiuso, ma lui si stava adoperando per aprirne uno nuovo presso un altro istituto.
L’esistenza di conti svizzeri insospettì gli investigatori, che cominciarono a indagare sui contratti dei calciatori che facevano parte della «scuderia» di Mazzoni. A cominciare proprio da Lavezzi e Chavez.
«I primi accertamenti – scrive il gip – evidenziavano alcune anomalie in materia contrattuale con risvolti nel settore fiscale». Quindi «l’indagine assumeva una portata più ampia al fine di verificare se queste anomalie riscontrate nella gestione di contratti da parte di procuratori sportivi che avevano curato trasferimenti di calciatori in entrata e in uscita dalla Ssc Napoli, erano ravvisabili anche alle operazioni contrattuali curate dai predetti procuratori relative ad altre società calcistiche dei campionati di serie A e serie B». Da queste analisi, scrive ancora il gip, «emergeva un modus operandi sospetto su base nazionale».
Il modus operandi cui si fa riferimento nel provvedimento di sequestro si è rivelato poi essere frequentissimo quando le trattative erano condotte da alcuni procuratori in particolare: Mazzoni, ma soprattutto Alessandro Moggi, figlio dell’ex direttore generale della Juventus Luciano Moggi, e alcuni meno famosi come Riccardo Calleri, Fernando Hidalgo, Marco Sommella e altri. Il comportamento sospetto consisteva nell’emissione da parte di questi procuratori, al termine delle trattative per stipulare i contratti dei loro assistiti, di fatture intestate non al giocatore del quale avevano curato gli interessi ma alla società con la quale avevano contrattato. In pratica i procuratori curavano gli interessi di questo o quel giocatore, ma al momento di essere pagati per il lavoro svolto, i soldi li prendevano dalle società delle quali fino a un momento prima erano stati una controparte.
Perché una cosa del genere, apparentemente insensata? La risposta alla quale sono giunti gli inquirenti è che tutto questo si verificava per evadere il fisco. E ognuna delle parti in causa ne traeva un proprio tornaconto. Quello dei calciatori è evidente: da ciò che guadagnavano non dovevano sottrarre nulla per pagare il procuratore, l’ingaggio concordato finiva tutto nelle loro tasche. E in più, se invece fossero stati loro a pagare la percentuale all’agente, non avrebbero potuto detrarla dalle tasse. Le società invece sì che potevano portare quelle spese in detrazione, e quindi erano disposte a farsene carico anche se si trattava di spese non di loro competenza. Infine i procuratori: avrebbero guadagnato le stesse cifre anche se a pagarli fossero stati i calciatori, ma avere la possibilità di offrire alle società un escamotage fiscale li agevolava notevolmente – secondo la tesi dell’accusa – nel portare a termine le trattative.
Con questo metodo si sarebbero conclusi contratti a decine. Al solo Moggi vengono contestati ventiquattro episodi. Un procuratore quotato come lui è normale che facesse affari più o meno con tutte le società, e infatti nell’elenco ci sono contratti con la Fiorentina (per Mutu), con il Genoa (Sculli), il Milan (Jankulovski e Legrottaglie), il Livorno (Tavano), il Parma (Paletta), il Palermo (Liverani) e altri ancora. C’è un suo assistito, Matteo Paro, che nel periodo preso in considerazione dalle indagini (2009-2013) cambia squadra quattro volte. E per quattro volte il suo contratto finisce nell’inchiesta di Napoli.