la Repubblica, 26 gennaio 2016
Twitter non funziona e Dorsey riprende in mano il timone, licenziando cinque manager
Quattro tutti assieme. Twitter perde la testa, o quantomeno perde quattro figure chiave che stavano lavorando al suo rilancio. E invece il fondatore Jack Dorsey, che ha ripreso in mano le redini a giugno, ha deciso che bisognava cambiare rotta. E così Alex Roetter, Brian Schipper, Katie Stanton e Kevin Weil, che dirigevano la parte tecnica, risorse umane, media e prodotto, hanno gettato la spugna. In apparenza volontariamente. A loro si aggiunge Jason Toff, manager di Vine, il servizio video di Twitter, che ora andrà a lavorare per Google.
Non funziona, è sconosciuto agli adolescenti e cresce poco. Nell’ultimo anno è stato superato da Instagram, che ormai è oltre i 400 milioni di utenti, mentre app come We-Chat e WhatsApp hanno raggiunto ripetitivamente i 650 e 900 milioni di persone. Twitter? È ad “appena” 316 milioni. «Non è un segreto che ci siano dei problemi», commenta Vivian Schiller, ex direttore delle news di Twitter dove ha lavorato per un anno chiamata dal precedente amministratore delegato Dick Costolo. Era arrivata dopo aver ricoperto la carica di chief digital officer della Nbc News, quella di direttore della Npr e vicepresidente di Discovery Times Channel. Ma anche lei è durata poco. «Dorsey sta tentando nuove strade iniziando dall’immaginare di togliere il limite dei 140 caratteri. È in una posizione davvero difficile: Twitter ha un bacino di utenti fedele che non vuole alcun cambiamento, ma per raggiungere una popolarità maggiore come richiedono gli investitori deve cambiare per forza».
Coniugare quel che apparentemente non può essere coniugato, la filosofia del passato con una stra- tegia completamente di- versa per il futuro. Il punto è che nessuno capisce bene a cosa stia mirando Dorsey, considerando i tanti segnali contraddittori. Come il licenziare 336 dipendenti ad ottobre regalando poi a tutti gli altri un terzo delle sue azioni pari a 200 milioni di dollari.
«Nell’ultimo anno Twitter ha perso molto. Non genera viralità, non incide nelle relazioni, non è più un faro com’era prima», racconta Stefano Epifani, professore alla Sapienza di Roma dove insegna Social Media Management. «Ha raggiunto la sua fama massima con la primavera araba. Ma non costruisci la tua popolarità solo sulle emergenze e sui 140 caratteri pubblicati da politici, star del cinema o giornalisti che non fanno altro che parlare fra di loro». Insomma, strano a dirsi, ma il peccato di Twitter è l’esser poco sociale. E pensare che è stato lui a diffondere l’uso dell’hashtag nel 2007, quell’etichetta tematica preceduta dal simbolo “#” che è poi diventata a sua volta messaggio. Ma da innovatore Dorsey & Co. si sono ritrovati nelle retrovie non dettando più l’agenda, e finendo per ricopiare quella degli altri.