Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2016
Cosa ci dice la storia del debito tedesco
Sono tornato in Abruzzo, a Roccaraso, ovunque tanta neve vera non artificiale, venerdì sera dopo molti anni, e ho avuto la fortuna di accorgermi che mi era rimasto in macchina Breve storia del debito da Bismarck a Merkel di Sergio Romano, edizione fuori commercio Vitale & Co. Spa, che avevo portato con me a Cortina in una fine d’anno “primaverile” piena di sole e senza un fiocco di neve. Non ero riuscito a leggerlo nelle cosiddette vacanze durante le quali ho scritto quasi ogni giorno e mi sono rifatto qui convincendomi sempre di più che dobbiamo dire grazie a Guido Roberto Vitale perché ci continua a regalare testi dimenticati, pezzi di storia vera, che ci rendono più consapevoli, che ci aiutano a capire chi siamo, da dove veniamo e dove è forse più giusto andare. Ricordo le Lezioni di politica sociale di Luigi Einaudi e Il pensiero economico di Luigi Sturzo ma anche Le vicende del marco tedesco di Costantino Bresciani-Turroni, e mi rendo conto che parlano tutti alle nostre coscienze di cittadini italiani ed europei, colmano vuoti di conoscenza e a loro modo offrono un contributo di qualità per rendere più consapevole anche «l’esercizio della leadership» nell’azione di governo, per non farci dimenticare mai che «il coraggio delle scelte» passa per la fiera consapevolezza, altrimenti «si rischia l’avventura».
La domanda, all’osso, che si pone Guido Roberto Vitale nella prefazione alla riedizione del libro è una sola: i tedeschi hanno onorato o no i loro debiti e, di conseguenza, hanno o no le carte in regola per imporre agli altri il loro modello di austerità? C’è un passaggio del ragionamento di Vitale che mi sembra utile riprodurre: «Siamo proprio di fronte a una sfida cruciale per l’Europa e per la Germania. La storia tedesca degli ultimi trent’anni, da Helmut Kohl ad Angela Merkel, è una storia di un popolo e dei propri leader che hanno volutamente rimesso la Germania al centro dell’azione politica dell’Europa. Quando nel 1990 fu il tempo della riunificazione della Germania dell’Ovest con quella della Germania dell’Est numerosi furono gli oppositori da una parte e dall’altra della cortina di ferro. Margaret Thatcher disse che temeva la riunificazione perché voleva una Germania europea e non un’Europa tedesca. È forse proprio questa la contraddizione nata allora che ancora blocca il sorgere di un’Europa politica compiuta. La leadership di una nazione sulle altre è quella carismatica che le permette di prendere la guida e arrivare a un altrove politico più ampio e imponente ma comune; non quella di fare un se stesso ancora più grande. Ora è indispensabile capire se la Germania può essere all’altezza di questa promessa politica, di quell’azione di leadership che porti l’Europa politica al suo compimento e la Germania a essere finalmente europea».
Sergio Romano non getta tutta la croce sulla Germania come, forse, vorrebbe Vitale, ma fornisce una ricostruzione puntuale e piena di chicche su uomini e fatti che riguardano la storia del debito tedesco e di altri debiti. Per quanto riguarda la Germania si parte con il trattato di Versailles dopo la Grande guerra e l’obbligo imposto ai tedeschi di «riparare i danni arrecati», la terribile deviazione nazista con un Hitler anche non pagatore, fino alla conferenza di Londra del ’53 dove i Paesi creditori decidono di cancellare poco più del 50% del debito tedesco (dentro vi erano anche «i danni arrecati» con la Seconda guerra mondiale) e accordano alla Germania la possibilità di rimborsare a rate poco meno dell’altro 50%. Ha ragione, Vitale, dunque? Non del tutto, sostiene Romano, perché in quel calcolo di Versailles c’era un eccesso di ragioni punitive nei confronti dei tedeschi e, a sostegno della sua tesi, si gioca la carta di Keynes che parla espressamente (Le conseguenze economiche della pace ) della pericolosità di misure così punitive e suggerisce di uscire da questo bisticcio tra creditori e debitori con un grande prestito internazionale, magari anche con il contributo degli Stati Uniti, per finanziare la ricostruzione dell’Europa, e si spinge a dire che vale la pena di «correre il rischio» anche di fronte alla obiezione che i singoli Stati europei avrebbero utilizzato queste somme per le loro «meschine politiche nazionali».
Soprattutto, mi colpisce, come Romano usa Keynes in chiave di metafora per i nostri giorni: «Avrebbe avuto ancora meno dubbi, probabilmente, se questo prestito fosse stato europeo, gestito dalla Commissione di Bruxelles, ripartito secondo i criteri che sono già in vigore per la ripartizione dei fondi europei e garantito dalla intera Unione. La Germania di Angela Merkel e di Wolfgang Schäuble vedrebbe in una tale proposta la mutualizzazione del debito, bestia nera della Repubblica federale. Ma non sarebbe la mutualizzazione del debito, per l’appunto, un passo decisivo sulla via dell’integrazione?». Fa bene l’ambasciatore Romano a porre l’interrogativo, e ne comprendo le ragioni politiche profonde che sono alla base di un disegno europeo mai davvero compiuto, ma purtroppo non c’è realisticamente da farsi grandi illusioni. Credo che, per combattere e sperare di vincere questa sacrosanta battaglia europea, qualunque governo italiano volesse intraprenderla sul serio, dovrà prima avere alle spalle un patrimonio di credibilità costruito in anni di duro lavoro senza concessioni alla demagogia e alle furbizie con un progetto Paese vero e un disegno di lungo termine che dimostrino di sapere contenere il peso del nostro maxi-debito pubblico. Bisogna costruirlo questo patrimonio di credibilità e bisogna farselo riconoscere, non so quale dei due sia l’impegno più difficile, ma so che non dobbiamo mai perdere la speranza politica che ciò sia possibile.