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 2016  gennaio 24 Domenica calendario

Come stanno andando i conti pubblici dell’Italia? Prova a capirci qualcosa Luca Ricofi

Come stanno andando i conti pubblici dell’Italia?
Una risposta abbastanza chiara l’avremo fra un paio di mesi, quando l’Istat comunicherà i dati dell’ultimo trimestre del 2015. Per ora quel che si può fare è accontentarsi dei dati Istat dei primi 3 trimestri dell’anno (che si riferiscono a tutta la Pubblica Amministrazione), oppure basarsi sui dati mensili della Banca d’Italia, che arrivano fino a novembre scorso ma si riferiscono solo al bilancio dello Stato.
In entrambi i casi il quadro non è esaltante. Se ci atteniamo ai dati Banca d’Italia, che sono i più aggiornati, le entrate dei primi 11 mesi del 2015 risultano in aumento di 14,3 miliardi (+4,2%) rispetto al medesimo periodo del 2014, mentre la spesa corrente ha avuto un’impennata di 44 miliardi (+11,0%). Se si considera che l’inflazione nel 2015 è stata prossima a zero, non possiamo certo spiegare questi aumenti con l’aumento dei prezzi. Non ci resta che sperare che il dato di dicembre abbia a capovolgere, o almeno ad attenuare, queste tendenze.
Spostandosi sui dati ufficiali Istat sull’intera Pubblica Amministrazione le cose migliorano un po’. Se confrontiamo gli ultimi 4 trimestri del governo Renzi con gli ultimi 4 trimestri del governo Letta quel che si osserva è un leggero aumento del peso di tasse e spese, pari a circa lo 0,6% del Pil. Si potrebbe obiettare che la contabilità ufficiale tratta il bonus da 80 euro come una spesa, anziché come una riduzione della pressione fiscale. E tuttavia se dalla contabilità “europea” (bonus=maggiore spesa) passiamo alla contabilità “governativa” (bonus=minori tasse) il quadro cambia di segno ma resta inalterato nel suo sostanziale immobilismo: quel piccolo aumento di entrate e spese, pari allo 0,6% del Pil, si tramuta in una leggera diminuzione, anch’essa dello 0,6% del Pil. Insomma, possiamo discutere all’infinito se sia più corretta la contabilità europea o quella governativa, ma resta il fatto che gli epocali cambiamenti più volte proclamati, spending review e abbattimento della pressione fiscale, per ora non hanno portato ad alcuna sostanziale variazione del grado di invadenza dello Stato nell’economia.
E l’avanzo primario, ovvero la differenza fra entrate e spese al netto degli interessi sul debito? Anche qui il quadro non è drammatico, ma resta sostanzialmente negativo. L’avanzo primario degli ultimi quattro trimestri è stato pari all’1,5% del prodotto interno lordo, ma era prossimo al 2% sia in era Letta sia in era Monti, il che significa che non stiamo usando la ripresa per risanare i conti pubblici ma, tutto al contrario, stiamo chiedendo ai conti pubblici di sostenere la ripresa.
Tenuto conto di tutte queste criticità, e di un’inflazione che resiste ad ogni tentativo di rianimarla, sembra difficile dare molto credito alla promessa, contenuta nella Legge di stabilità, di una discesa del rapporto debito/Pil nel 2016. Se le cose continueranno così, non ci sarebbe da stupirsi che quest’anno il nostro debito pubblico toccasse un nuovo massimo storico.
Poiché i dati che ho brevemente richiamato non possono non essere noti al governo, e in particolare al suo ministro dell’Economia, verrebbe spontaneo chiedersi: quali sono le ragioni di una simile politica, così poco attenta all’equilibrio dei conti pubblici?
A me pare che tali ragioni siano sostanzialmente due, una buona e l’altra meno buona. La ragione buona è che, per ora, una simile politica, sostanzialmente espansiva e indifferente al debito, qualche frutto lo sta dando. La modestia dei risultati occupazionali ottenuti con la decontribuzione e con il Jobs Act non può nascondere il fatto che, sia pure lentamente, le famiglie stanno rialzando la testa. A testimoniarlo non sono tanto e solo i consumi, quanto l’evoluzione dei bilanci familiari. Le famiglie in difficoltà, costrette a fare debiti o attingere dalle riserve, erano quasi il 35% nel corso del 2013, oggi sono scese al di sotto del 25%: sempre tantissime, ma molte di meno di un paio di anni fa.
La ragione meno buona è che, a quanto capisco, la nostra politica economica non teme il rialzare la testa dei mercati; non teme, detto altrimenti, che i timori sullo stato dei nostri conti pubblici possano riaprire una stagione di tassi di interesse crescenti, come avvenne nel 2011-2012. Questa ragione mi pare dubbia per due motivi distinti. Il primo è che i mercati sono “animali sensibili” e nessuno, né politico né economista, può sapere in anticipo se l’Europa andrà di nuovo incontro a periodi di turbolenza come quelli più volte sperimentati durante la lunga crisi di questi anni; questa sola circostanza dovrebbe bastare a suggerire una certa prudenza nella gestione dei conti pubblici.
Il secondo motivo che mi lascia perplesso è che un certo allarme sui mercati è comunque già in atto da qualche tempo, anche se non è visibile e conclamato come in altri momenti. Se anziché guardare ai rendimenti medi dei titoli di stato dell’Eurozona guardiamo alla loro variabilità, è facile rendersi conto che l’era della tranquillità è finita da tempo.
Da giugno del 2015 la tendenza dei mercati è stata sistematicamente alla differenziazione dei rendimenti, con varie significative accelerazioni nel corso degli ultimi due mesi. C’è solo da augurarsi che, alla lunga, i vantaggi della politica espansiva intrapresa negli ultimi tempi prevalgano sui rischi che, inevitabilmente, ogni politica espansiva attuata da uno Stato oberato dai debiti porta con sé.