il Fatto Quotidiano, 24 gennaio 2016
A Parigi non si va più a bere, ma non è solo colpa degli attentati
Questo locale è aperto 24 ore su 24 dal 1947. Sulla porta non c’è mai stata né chiave né serratura perché non ha mai chiuso!”. Al Pied de Cochon, nel cuore storico di Parigi, servono la tradizionale choucroute anche alle 3 di notte ed è per questo che è da sempre uno dei luoghi preferiti dei nottambuli. Ma da alcune settimane non si è visto neanche un cliente notturno e per la prima volta la famosa brasserie ha messo la chiave alla porta. Lo ha annunciato il suo proprietario, Pascal Brun: “Dagli attentati la nostra attività è scesa del 20%”. E allora dalla domenica al mercoledì ormai il locale chiude a mezzanotte e mezza e riapre alle 7. Il servizio no-stop è mantenuto dal giovedì al sabato. Ma si tratta di una misura temporanea: “I nuovi orari – ha rassicurato Brun – saranno applicati fino a aprile”. In primavera tutto tornerà alla normalità.
La verità è che da quel 13 novembre in cui i kalashnikov hanno ucciso alle terrazze dei caffè, più che alzare le saracinesche, molte brasserie della capitale, senza clienti, son obbligate ad abbassarle. I terroristi seminando la paura ci hanno ricordato che Parigi nel mondo è anche questo: tavolini stretti e scomodi, dove si sta gomito a gomito, e un gruppo di amici che chiacchiera attorno a una bottiglia di vino.
Dopo gli attentati un gesto quotidiano come bere un caffè al bar era diventato per molti parigini un atto di resistenza. Cronisti, sociologi, esperti hanno scritto che bisognava salvare quel savoir vivre attaccato dai terroristi. Poi un paio di giorni fa Le Parisien ha pubblicato uno studio dell’Insee che lancia l’allarme: i bistrot sono in via d’estinzione. Il terrorismo è solo l’ultima, ulteriore, minaccia a un “patrimonio nazionale” già in pericolo.
Secondo l’Istituto francese di statistica, dei 600 mila bistrot negli anni 60 ne restano oggi meno di 35 mila. Nel 2014 ne sono stati contati con precisione 34.669. I bistrot sopravvivono ancora in 10.619 comuni, mentre in 26.045 sono semplicemente spariti. Certe regioni rurali del centro e dell’est sono più colpite di altre. Qui un abitante su 3 dichiara che non solo non ha più il bar sotto casa, ma che non ce ne sono neanche nei paesi vicini.
La crisi del bistrot viene da lontano. Gli addetti ai lavori chiamano in causa regolamentazioni più rigide sul consumo dell’alcool, il divieto di fumare nei luoghi pubblici (entrato in vigore nel 2007), i costi legati alla messa a norma dei locali, e via dicendo. “Negli anni Ottanta, Novanta, abbiamo visto sparire i nostri caffè senza reagire. In un certo senso l’arrivo di catene come Starbuck’s, che poteva darci il colpo di grazia, ci ha permesso di rimetterci in questione”, ci spiega Marcel Benezet, presidente dei Caffè, bar, brasserie al sindacato Synhorcat.
Nelle città, dove il fenomeno registra una battuta d’arresto, al posto dei bistrot sono comparse banche, agenzie immobiliari, fast food. Nelle campagne sempre più deserte invece resta una saracinesca abbassata: “Alcuni comuni sono dormitori – ha aggiunto Benezet –. Un po’ alla volta chiude tutto, la drogheria, la posta, persino la chiesa, e per ultimo anche il caffè. Ma il bistrot è nel nostro dna. Vederli chiudere è come perdere un po’ della nostra anima”.
In Francia il bistrot non è solo un luogo di passaggio. Ci si ferma a leggere il giornale con la tazzina che fuma sul tavolino e a raccontarsi le ultime di quartiere. Raro è il frettoloso che butta giù il caffè al bancone e fugge via due minuti dopo. Al bistrot si sono scritti romanzi, sono nate passioni, sono stati difesi ideali. Il café de Flore era la “seconda casa” di Sartre e Simone de Beauvoir.
E chissà se Simenon avrebbe mai dato vita al commissario Maigret se non ci fossero stati i bistrot. Allora per non morire il bistrot si reinventa. Alcuni municipi hanno ripreso la licenza del caffè dell’angolo per non vederlo chiudere. Delle associazioni organizzano premi per aiutare i giovani che si vogliono lanciare nel mestiere. Nei paesini i bar vendono ormai anche francobolli, sigarette, Lotto, hanno il bancomat, propongono un servizio postale. I sociologi dicono che il bistrot va salvato perché uno degli ultimi luoghi dove si crea ancora il legame sociale.
È come un rifugio, si lasciano fuori per qualche ora le preoccupazioni della giornata: “È spesso il solo posto dove si possono incontrare persone provenienti da ambienti sociali diversi. È un luogo di catarsi, in cui ci si sfoga, si parla dei problemi. In cui si rompe la spirale delle solitudini estreme”, ha spiegato la sociologa Josette Halégoi. Bastien Giraud, non è sociologo, è il direttore della Federazione nazionale dei Bistrot de Pays, eppure ci dice: “Il bistrot in Francia è un po’ l’anti-facebook, è una rete sociale, ma reale, non virtuale. Certo che deve evolvere, ma senza perdere la sua autenticità. Deve restare un luogo dove si mangia bene e si sta bene insieme agli altri”.