la Repubblica, 24 gennaio 2016
Il premio Pulitzer Walter Robinson parla di Spotlight, il più antico team investigativo del giornalismo americano – quello che scoprì lo scandalo dei preti pedofili – che ora è diventato un film
A settant’anni, metà dei quali al Boston Globe, dove è oggi editor at large, il premio Pulitzer Walter Robinson “Robby” ha ancora negli occhi la luce e la febbre del cronista. «Quando sapemmo che volevano girare Spotlight, ci dicemmo: ma a chi vuoi che interessi come i giornalisti fanno le loro salsicce? E invece ne è venuto fuori un racconto fedele della nostra inchiesta sulla rete di preti pedofili della diocesi di Boston. Direi di più. Spotlight spiega la ragione del perché fare il giornalista può dare senso a un’intera vita. Poter un giorno scrivere una storia non per vedere che cosa accadrà dopo che è stata pubblicata. Ma per sapere che, grazie a quella storia, quel che era accaduto sin lì non accadrà mai più. Detto questo, il film si è concesso due licenze narrative…».
Quali?
«Michael Keaton sembra uscito da un negozio Brooks Brothers. Io non giravo con le camicie botton down e non ricordo più quando ho indossato l’ultima volta dei pantaloni con la piega. La seconda: nelle redazioni la democrazia non esiste. Da caporedattore di “Spotlight” (nome del team investigativo del Globe, ndr) ho sempre ascoltato le ragioni dei miei cronisti. Perché Joseph Pulitzer diceva: “Nel giornalismo, ogni cronista è una speranza, ogni editor è una delusione”. I reporter sono macchine progettate per non avere i freni. Perché per quelli ci sono i caporedattori. Ma il mio reporter Michael Rezendes non mi ha mai urlato o sbattuto la porta in faccia. Perché quando non eravamo d’accordo, le discussioni con i miei cronisti finivano sempre allo stesso modo: “Bene, hai detto quello che dovevi. Ora decido io”».
Tra il 6 gennaio 2002 e l’aprile del 2003, il “Globe” pubblicò 600 articoli che gli valsero il Pulitzer e documentarono l’esistenza di una rete di preti pedofili della diocesi di Boston che, nell’arco di quindici anni, aveva visto oltre 150 religiosi abusare migliaia di vittime. L’inchiesta documentò anche come la rete fosse stata coperta dall’arcivescovo di Boston, Bernard F.Law, e costrinse la Santa Sede a uno storico mea culpa. Perché decideste di imbarcarvi in quel lavoro?
«Il merito fu di Martin Baron. Nell’estate del 2001 era appena stato nominato direttore del Globe. Il primo nella storia del giornale a non essere scelto tra gli editor della testata. Arrivava dalla Florida ed era stato al New York Times. Un marziano. Nel film si lascia intendere che il fatto di essere ebreo lo aiutò a non sentirsi prigioniero della Diocesi e della cattolica Boston. Ma la verità è più semplice. Baron, che era e resta il miglior direttore che abbia mai avuto la stampa americana (dal 2012 dirige il Washington Post, ndr), guardava Boston con occhi freschi, curiosi. La sua vita era il giornalismo. Potevi mandargli una mail a mezzanotte o all’alba ed eri sicuro che ti rispondesse dopo un minuto. Ci convinse a riprendere in mano e ad allargare l’indagine su un caso di molestie sessuali da parte del reverendo John Geoghan del 1997, di cui si era occupato il Globe nelle sue pagine locali».
Perché?
«Gli atti di quella denuncia, che si era chiusa con una transazione tra il reverendo e le sue vittime, erano stati secretati. Per noi di Boston era normale che la magistratura coprisse con la riservatezza una questione che imbarazzava la Chiesa. Lui ci disse di lavorarci sopra per scoprire la ragione di quella secretazione. E convinse l’editore del Globe a far causa alla Diocesi per chiedere e alla fine ottenere la desecretazione di quegli atti da cui fu evidente che quella rete era stata coperta dall’arcidiocesi per quindici anni».
Nel film, una delle figure chiave è anche Ben Bradlee jr., figlio del Ben Bradlee direttore del “Washington Post” del caso Watergate. Un segno del destino.
«Ben era il vicedirettore esecutivo del Globe cui io rispondevo come capo della redazione inchieste. Come il padre, aveva il garbo dell’elefante in una cristalleria e i modi profani di chi ama andare al sodo delle cose. Era capace di telefonare e dire: “Stai scherzando, vero? Mi stai dicendo che ci sono a Boston novanta preti pedofili del cazzo?”.
"Spotlight” celebra il giornalismo d’inchiesta o è un appello alla sua sopravvivenza?
«L’uno e l’altro. Quindici anni fa, al Globe eravamo più di cinquecento. Oggi superiamo a stento i trecento. Le storie che ci chiedono sono di mille parole e perdiamo ore e ore incatenati a twitter, facebook, instagram. Perché, ci spiegano, che senza un nostro pensiero o segnalazione in Rete ogni venti minuti non si va avanti. Per carità, il business è questo. Poi, però, sai che “Spotlight” esiste e resiste dal 1970. Il più antico team investigativo del giornalismo americano. Ebbene, nell’era digitale, il giornalismo investigativo resta la sola risorsa per controllare davvero i poteri pubblici e privati e l’unico che convinca un lettore che tu sia indispensabile».