Libero, 25 gennaio 2016
Da Bach e Handel, i geni della musica vittime di malasanità
Ci sono misteri che non sono misteri per niente, miti e leggende che hanno blandito e sedotto l’ingenuità popolare con la complicità dei fulgori ottocenteschi. Niente di strano che allora più di oggi l’immagine del genio e dell’artista non venisse accomunata a quella di una persona normale: l’ingresso nell’immortalità doveva essere il coronamento quantomeno di una gloriosa vecchiaia, e ogni esequia prematura si prospettava perciò come un’ingiustizia divina. Nel caso di Mozart o Ciaikovskij o Pergolesi, per esempio, la notizia della loro morte si accompagnò immediatamente alla voce che fossero stati avvelenati: questo nonostante le salme non presentassero nessuno dei sintomi legati all’assunzione di mercurio o piombo o arsenico. Purtroppo, spesso, la verità era terribilmente banale: gli artisti – anche loro – erano ammazzati da medici e ciarlatani.
Facciamo un esempio, anzi due. Il quotidiano Sunday Telegraph, un bel giorno, raccontò che la casa londinese del fu musicista tedesco Georg Friedrich Hndel era dimorata da un fantasma. Questo non accadeva due secoli fa, ma nel luglio 2004. Il giornale inglese spiegava che nella citata abitazione, al numero 25 di Brook street, dovevano allestire un museo, ma questo fantasma ritardava continuamente i lavori sicché i muratori e i carpentieri se la svignavano ogni volta. Lo spettro – si leggeva – denotava una certa predilezione per la stanza in cui Hndel morì il 14 aprile del 1759 e si manifestava in due modi: dapprima emanando un intenso profumo, e poi sotto forma di un’ombra che al calar delle tenebre rimaneva imperterrita per ore, non schiodando mai.
L’ipotesi era che potesse trattarsi di uno spirito-donna (da qui il profumo) e si parlò di una governante dell’epoca oppure di due soprano italiane, Faustina Bordoni e Francesca Cuzzoni. Il finanziatore della Hndel House Trust, Martin Egglestone, commentò serafico: «Non sappiamo se un fenomeno del genere attragga i visitatori o li faccia fuggire ma, con tutti gli oggetti pregiati che stiamo portando nella casa, abbiamo ritenuto opportuno muoverci sul sicuro». Da qui l’accordo con un esorcista cattolico, che intervenne con orazioni e acqua benedetta.
«ECLISSE TOTALE»
Ora: ignoriamo come sia andata a finire, ma sono arcinote le consuetudini anglosassoni con spettri d’ogni sorta. Resta probabile che il fantasma fosse solo un espediente pubblicitario. Dovessimo scommettere, però, non avremmo dubbi di che fantasma si trattasse: potrebbe trattarsi, a nostro dire, del fantasma dell’infame John von Taylor (1703-1772) ossia dell’oculista inglese che ebbe in cura Friedrich Hndel e prima ancora Johann Sebastian Bach. Proprio così. Già nell’anno 1749, Bach non riusciva più a leggere la musica: era quasi cieco e tutti andavano dicendo che sarebbe morto. Fin dalla primavera, il Consiglio di Lipsia aveva indetto una pubblica audizione «nel caso il Director musices J. Sebastian Bach passasse a miglior vita». Come una moglie che, vivo il primo marito, ne cercasse già un secondo. Sebastian non riusciva più a leggere la musica ma non si diede per vinto né per morto, sicché la speranza prese gli offuscati contorni appunto di Taylor, sedicente oculista che l’operò per due volte alla cornea. «Taylor», spiega un diario del 1750, «toglie il cristallino dall’occhio, e infila un ferro appuntito lungo mezzo piede».
Bach fu accecato completamente, e una cronica infiammazione del bulbo oculare ne accelerò il declino fisico: morì. Poi, due anni dopo, venne il turno di Hndel, amatissimo in Inghilterra e già allora afflitto da seri problemi alla vista. Si ricorda la pubblica esecuzione di un suo oratorio, recitava così: «Eclisse totale/niente sole, niente luna/ tutto buio nello splendore del mezzogiorno». Il pubblico ogni volta guardava Hndel e si commuoveva sino alle lacrime. Provvide Taylor. Si servì di uno stiletto d’acciaio (non sterilizzato) e operò inserendo degli aghi negli occhi del compositore. Non vide mai più. Morì pochi anni dopo. La ciarlataneria di Taylor è peraltro conclamata solo oggi: era solito abbandonare le città prima che le conseguenze dei suoi interventi si palesassero. Nelle sue memorie scrisse che i suoi interventi su Bach e Handel ebbero successo; si definiva «oculista patentato di papi, imperatori e teste coronate» e attraversava l’Europa sfilando con lunghe schiere di servitori e carrozzoni decorati con occhi splendenti. Dai suoi scritti si apprendono anche gli ingredienti di alcune tinture che prescriveva dopo la trafittura delle cateratte: misture di rospi, carne di serpente, carne umana, urina, feci: il tutto innaffiato da un’essenza di ginepro. Riteniamo che il profumo emanato dal fantasma potrebbe essere quest’ultimo. E ipotizziamo infine che Taylor, nell’attesa di un esclusivo girone dell’Inferno, in via provvisoria sia stato mandato a espiare giusto al 25 di Brook street. Vi è molto, in effetti, da espiare. La quantità di musica che abbiamo perduto è difficilmente calcolabile.
DA MOZART A CHOPIN
Il punto è proprio questo: certe età dell’oro presentano anche dei volti decisamente meno ammalianti, e tra questi c’è un livello di conoscenze scientifiche per noi difficile da concepire. I compositori trapassati per colpa dei medici e dei loro rimedi imbarazzanti, per malattie cioè cosiddette iatrogene, sono davvero parecchi. Questo genere di misteri meriterebbe un altro genere di trattazione, anche perché non è il caso di confondere la sordida ignoranza con l’intrigo poliziesco.
Magari, ecco, è arcinoto che i medici non riuscirono a salvare Mozart, ed è ritenuto stupefacente che sia morto a 36 anni non compiuti. Ma è anche vero che Giovanni Battista Pergolesi, magnifico compositore di musica sacra e autore dell’immortale Stabat Mater, morì di tubercolosi a 26 anni. Carl Maria von Weber, uno dei più influenti musicisti tedeschi a cavallo tra Sette e Ottocento, morì sempre di tubercolosi a 39 anni. Suo figlio Alexander, grandissima promessa artistica, morì ancora di tubercolosi a 19 anni. Parliamo di periodi in cui le diagnosi erano ancora estremamente imprecise: la stessa tubercolosi, per capirci, nel 1840 causava il 18 per cento dei morti. Franz Schubert, magnifico e prolifico compositore austriaco, morì di sifilide a 31 anni: e si parla di un’infezione che ancora all’inizio del Novecento colpiva il 10 per cento della popolazione. Fryedryk Chopin, eccelso pianista che tutti credono francese anche se era polacco, morì di una malattia polmonare a 39 anni.
Il francese George Bizet, autore della Carmen, dapprima contestata e bistrattata, morì a 36 anni senza sapere che la sua opera avrebbe cominciato una marcia trionfale in tutta Europa; non si è neppure capito se sia morto per un problema cardiaco o per un suicidio che i familiari vollero coprire. Ciaikovskij, sino a prova contraria, morì per l’ottava epidemia mondiale di colera. Ma i romantici riuscirono ad appassionarsi anche a questo: a Parigi descrissero gli hotel coi morti esposti come mummie e i carri funerari che stazionavano come taxi; a casa dello scrittore Victor Hugo ci fu una riunione di intellettuali con Franz Liszt che intanto suonava una marcia funebre: «Era splendido», scrisse Fontaney, «e che magnifica scena si sarebbe potuta allestire, coi morti di colera in marcia verso Notre Dame, avvolti nei loro sudari». Che magnifica scena, già.