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 2016  gennaio 25 Lunedì calendario

Martina Navratilova, dapprima apolide, poi americana e insieme omosessuale. Storia di una donna che ha rivoluzionato il mondo del tennis

«La Madonna!». Non era la mia una preghiera, ma un’esclamazione che certo mi avrebbe causato una penitenza, in confessionale, se non mi fossi invece trovato sui bordi di una magnifico campo verde, e privo di testimoni. Come sempre il ricevimento pomeridiano dell’Hurlingham Club, lungo il Tamigi, precedeva il primo giorno di Wimbledon 1973. Senza far parte, ormai, dei tennisti invitati, avevo portato con me i panni bianchi, che avevo indossato, e la racchetta, nella speranza di riuscire un palleggio, un set, con qualche benevolo giocatore, o un vecchio socio. Chi aveva provocato l’esclamazione era una ragazza, capelli corti, bel visuccio, mento volitivo, corpo atletico ma asciutto, belle gambe che fuoruscivano da un paio di calzoncini cortissimi.
La sua partitina doveva essere finita e, vincendo la mia residua timidezza, le chiesi di fare due palle. Ritornò verso la linea di fondo, tirò la palla, gliela rimandai, ma subito, col diritto, la mise fuori dalla mia portata, mentre mormorava «Sorry». «È il diritto di una campionessa del mondo», risposi, e lei scosse la testa, e sorrise, come qualcuno che ascolta una iperbole. Palleggiammo cinque minuti, poi arrivarono in quattro, tutti giocatori di Wimbledon, e dovemmo uscire. La ringraziai, e le dissi che non avrei mancato il suo esordio, a Wimbledon. La vidi, nuovamente in tutto quel suo fascino mascolino, battere una ex, l’inglese Christine Truman, vincitrice del campionato italiano fuoriporta ma anche del Roland Garros 1958, ma sposata e soddisfatta.
Da quel giorno, la curiosità umana, non solo professionale, continuò a crescere, e mi mise sulle tracce di una storia che avrebbe portato un bravo regista, un amico quale Duccio Tessari, e a farmi tracciare un, ahimè, vano copione. La ragazza che avevo ammirato colpire la palla come una futura campionessa si rivelò la figlia di tale Miroslav Subert, quindi a 3 anni il divorzio della mamma e un nuovo matrimonio la fece divenire figlia adottata di Mirek Navratil, e dunque, da Subertova, Navratilova.
Nella sua prima biografia, scritta dal mio amico George Vecsey del New York Times, c’è una pagina importante per disegnare sin da piccola l’inclinazione omosessuale di Martina: «Ero stata l’ultima della mia classe ad avere le mestruazioni. Avevo le orecchie grosse, un nasone. Sarò sempre uguale a un ragazzo dissi piangendo». Il nuovo papà la incoraggiò. La fece giocare a tennis, sul campo che era stato della famiglia di Martina, di fronte a una villa dove nonna Agnes Semanska giocava a tennis da prima categoria, una casa della quale avevano conservato un pezzettino poiché, com’è noto, dal 1948 la proprietà privata divenne un furto, in Cecoslovacchia. Nel nostro copione fallito, Tessari e io avremmo sottolineato, in un’altra scena copiata dalla biografia, l’incontro tra Martina e suo padre, quando la tennista trovò il coraggio di sfuggire ai comunisti, e si rifugiò negli Stati Uniti, dove i genitori la raggiunsero grazie a un visto concesso con gravissimi rischi per gli altri parenti, nel caso di non ritorno. Navratil si sorprende, dapprima, perché la casa che Martina, a Charlottesville (Virginia) gli ha acquistato, non è la stessa nella quale vive, con la sua compagna, la scrittrice Rita Mae Brown, che ha sostituito un’altra donna famosa, la cestista Nancy Lieberman.
Alle spiegazioni di Martina, il padre insorge, e afferma che tutto è accaduto a causa del primo fidanzato. «Fossi stato io, al suo posto, non saresti diventata quella che sei». Quasi non bastasse, viene dichiarato alla poveretta il nome del suo vero padre, accompagnato da ricordi negativi.
Una simile vicenda dovette essere ancora più crudele del fatto che, quando Martina, nel 1978 vinse il primo Wimbledon dei suoi 9 Wimbledon, apparvero, sui giornali di Praga, tre righe, in cui si diceva che una cecoslovacca, senza citarne il nome, aveva vinto il torneo inglese. Che altro dire, se non ricordare l’assuefazione a una vita diversa da quella per la quale Martina sembrava nata, e la difficoltà ad essere dapprima apolide, poi americana, e insieme omosessuale, con un’indubbia, eccessiva notorietà di quelle che furono le sue compagne, Nancy Liebermann, Mae West e infine Judy Nelson, che profittò della notorietà della tennista per pubblicare un libro scoraggiante. Rimane, nel ricordo di chi l’ha ammirata, senza conoscerla almeno un tantino, come mi è avvenuto, quella che fu la storia di una rivalità e di un’amicizia, con l’altra grande giocatrice dei suoi tempi, Chris Evert.
Si direbbe che, nel dna delle due tenniste, già fossero pronti i geni per condurle al successo sportivo, quanto a una vita di amori mutevoli e spesso infranti. Se Martina aveva avuto una nonna tennista, Chris Evert aveva – ha tuttora – il padre allenatore, Jim. Fu lui ad insegnarle quel rovescio bimane, che la contraddistinse quanto il serve and volley di Martina, e a prepararla per una lunga catena di scontri che terminò quasi in parità. Quanto Martina apparve amazzone Chris, pur nella sua determinazione, sembrò una grande bambina, e chi scrive non può far altro che augurarle una maturità e una salute felici.
Non posso far altro che ricordare come i match tra le due si potessero definire tra attaccante e difensore, sinchè venne il momento in cui Chris capì che la sola difesa non era sufficiente contro una simile rivale, e prese a traformare il suo eccezionale colpo bimane da passing shot in backhand d’attacco. Alla fine del 1988 – Martina 32 anni, Chris 34 – Navratilova conduceva 43 a 37. Sull’amica terra Evert stava avanti 11 a 3. Sul nativo cemento era stata raggiunta e superata 7 a 9, così come sull’erba 5 a 10, e sotto i tetti indoor 14 a 21. Da un vantaggio iniziale di 20 match a 4 per la Evert dal ’73 al ’77, dopo un quasi pareggio nel ’78, iniziava la supremazia per Martina con un 37 a 14, dei quali un 15 a 1 dall’82 all’85. Che cosa sarà mai accaduto, nei loro cuori, per spiegare simili improvvisi scarti, in punteggio finale quasi in parità? Temo ci vorrebbe un librone, e non un tentativo, certo insufficiente, su un giornale. Per terminare simile storia, un po’ troppo simile ad un elenco, vorrei ricordare i 9 Wimbledon di Martina (battuta la grande americana Helen Wills), i 4 US Open, i 2 Roland Garros, e i 3 Australian. Riguardo a questi, mi si permetta di citare una vicenda, che raccontai un giorno a Martina, sentendomi in qualche modo colpevole.
Nel 1983, dopo aver perduto al Roland Garros da Kathy Horvath, Martina vinse gli altri tre Slam – ultimo tra questi lo Australian – che allora si giocava a dicembre. Quando, l’anno successivo, riuscì a vincere sui lenti campi di Parigi, che non amava, una ricca ditta coinvolta con il tennis lanciò l’idea e il titolo di Grand Slam Biennale, e molte agenzie, e cronisti impreparati e foraggiati, diedero rilievo al fatto. Fui io allora che, per una volta, scelsi un ruolo pubblico, e chiesi a tutti i colleghi presenti a Parigi di stilare una democratica votazione di favorevoli e contrari. I contrari batterono i favorevoli 90 a 10, e l’ipotesi pubblicitaria dello Slam Biennale svanì. Lo stesso anno Martina si sarebbe in seguito aggiudicata Wimbledon e lo US Open, arrivando così un’altra volta a 3 vittorie Slam ma perdendo la finale australiana contro Vera Sukova, cecoslovacca di passaporto, mentre la nostra eroina era divenuta ormai americana (1981). Non assistetti a quel match, ma il punteggio, 1/6, 6/3, 7/5 sembra scritto apposta per definire una umana incertezza, una sorta di complesso perdente.
Quando le parlai dello Slam Biennale, Martina scosse il capo, e sorrise, un sorriso non certo gaio. Le auguro maggior fortuna nel suo matrimonio, festeggiato quasi si trattasse di un film, nello stadio acclamante di Flushing Meadows, con l’ultimo amore, Julia Lemigova.