la Repubblica, 24 gennaio 2016
Schengen esiste sul serio. C’è pure il ristorante cinese
SCHENGEN.
Eccolo qui, il nome che fa tremare l’Europa. Cinque distributori (il gasolio costa 91 centesimi al litro), un ristorante (cinese), un negozio di parrucchiera.
Il municipio è a Remerschen, in Lussemburgo. La farmacia è in Francia. L’albergo più vicino in Germania. Benvenuti a Schengen, cittadina di quattromila abitanti sulle rive della Mosella, patria di un discreto vino bianco e di un’idea francamente più grande di lei.
Sul piccolo molo dove il 14 giugno 1985, a bordo di un barcone per gite fluviali pomposamente intitolato
Princesse Marie Astrid, vennero firmati i primi accordi di libera circolazione, adesso c’è un pescatore solitario. «È la fine della stagione per il persico – spiega – ma in questo punto, se abboccano, sono grossi».
Poco più avanti c’è un piccolo museo dedicato all’evento che ha reso questo villaggio famoso nel mondo. Nel registro delle presenze di quest’anno ci sono solo sei firme: un cipriota, un siriano, due francesi, un signore cinese che si lamenta per la mancanza di audioguide in inglese e la sua accompagnatrice tedesca. In un angolo, una ingegnosa macchinetta permette di stampare un finto passaporto europeo con il proprio nome. Sembrava un’idea un po’ troppo ottimistica. Adesso, con quello che sta succedendo, suona più che altro sarcastica.
Se gli accordi di Maastricht che diedero vita alla moneta unica furono il frutto di un lungo negoziato, che coinvolse tutti i governi ai massimi livelli, gli accordi di Schengen, che hanno abolito le frontiere europee, nacquero in sordina, quasi senza volerlo. Nessuno dei protagonisti di allora sapeva di mettere in moto un meccanismo di portata epocale, la cui crisi, adesso, fa tremare le borse e le cancellerie di mezzo mondo.
Maastricht è un simbolo della Storia con la S maiuscola. Schengen è un sibolo del Caso, di una concatenazione di eventi, non voluta e non programmata, che cresce fino ad assumere importanza, dimensione e significati inimmaginabili.
L’idea di abolire simbolicamente le frontiere tra la Francia e la Germania nacque, quasi per caso appunto, durante una cena tra Kohl e Mitterrand. Era il 1984. Il presidente francese e il cancelliere tedesco si erano appena tenuti la mano nel cimitero di Verdun per commemorare il carnaio insensato della Prima guerra mondiale: una foto che resta impressa nella memoria collettiva dell’Europa.
Cercavano un altro gesto simbolico. Decisero di abolire la frontiera sul ponte di Kehl, che unisce la Francia e la Germania a Strasburgo. I paesi del Benelux, Olanda, Belgio e Lussemburgo, che già avevano creato una loro unione doganale, saltarono sull’idea.
Si optò per un accordo intergovernativo, non europeo, perché gli altri cinque paesi della Cee non erano pronti ad accettare un’idea tanto rivoluzionaria. E gli inglesi avevano subito eccepito che l’Europa non aveva alcuna competenza in materia di frontiere. Non hanno cambiato idea da allora.
Si scelse come luogo della cerimonia il villaggio lussemburghese di Schengen, che si trova proprio all’incrocio delle tre frontiere, tra Germania, Francia e Granducato. Siccome non offriva un luogo adatto per ospitare le delegazioni, venne fatta arrivare la motonave Princessse Astrid. La cerimonia fu semplice e in sordina. I protocolli portano i nomi di cinque sottosegretari, da tempo dimenticati. Per arrivare alla firma di una vera e propria convenzione, che definisse le modalità di abolizione delle frontiere, occorsero altri cinque anni. Ma le prime barre di confine furono effettivamente levate solo nel 1995, dieci anni dopo.
Da allora molta acqua è passata sotto il ponte sulla Mosella che unisce i tre paesi. Schengen è stata incorporata nei Trattatti europei. Ormai vi aderiscono 26 Paesi, con una popolazione che supera i 400 milioni di persone.
La libertà di cirolazione è diventata il simbolo più importante di una unità europea che oggi appare più che mai in pericolo. L’Europa di allora si era attrezzata per resistere congiuntamente all’attacco dei carri sovietici. L’Europa di oggi non sa come affrontare un invasore disarmato, che ci chiede aiuto, forte solo della sua disperazione. Già nelle intenzioni dei primi fondatori, all’abolizione delle frontiere interne, doveva corrispondere la nascita di una frontiera esterna comune. Ma quella frontiera comune è stata abbandonata alla sovranità dei singoli stati nazionali. Un po’ come per l’euro, si sono lasciate le cose a metà.
Abbiamo una moneta comune, ma non un sovrano che la rappresenti. Abbiamo una frontiera comune, ma non un’autorità che la sappia difendere. Qui, tra i vigneti della Mosella, la tragedia sembra remota. Il pescatore raccoglie le canne e se ne va. Attraversa il ponte. È già in Germania e forse non si accorge neppure di aver varcato un confine costato milioni di morti. Ancora per quanto saremo così liberi?