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 2016  gennaio 23 Sabato calendario

Il prezzo del petrolio torna a salire. Ecco perché

Tutto è possibile, una volta che i mercati sono entrati nel regno dell’irrazionalità. E non c’è dubbio che il petrolio abbia ormai smesso di rispondere alle dinamiche di domanda e offerta. Inutile cercare motivi diversi dalla speculazione per spiegare perché il prezzo del greggio ora si sia messo a salire all’impazzata, cancellando con un rialzo del 15% in appena due sedute oltre metà dei pesantissimi ribassi accumulati da inizio anno. Ieri le quotazioni si sono impennate addirittura del 9%, riportando Brent e Wti sopra 32 dollari al barile. Solo mercoledì il riferimento americano aveva segnato un nuovo minimo da 12 anni, sotto 27 dollari.
Cos’è cambiato in questi due giorni? Nulla, se guardiamo ai fondamentali. Nemmeno nei primi giorni dell’anno, del resto, c’erano state novità così dirompenti da giustificare un’accelerazione così violenta nel crollo dei prezzi: la revoca delle sanzioni all’Iran non è certo stata una sorpresa, anche se qualcuno pensava sarebbe arrivata un paio di mesi più tardi.
A galvanizzare i mercati (non solo quelli petroliferi) adesso è arrivato Supermario: il presidente della Bce, Mario Draghi, ha parlato anche ieri da Davos, rafforzando la promessa di illimitata liquidità che aveva fatto giovedì. Ma questo è stato solo lo spunto che i fondi di investimento hanno deciso di cogliere per incassare un po’ di profitti, chiudendo una parte delle posizioni corte, ossia alla vendita, che avevano accumulato nelle settimane passate: le “scommesse” ribassiste sul mercato Usa sono raddoppiate in tre mesi, raggiungendo livelli record, equivalenti a oltre 200 milioni di barili (in pratica, più di due giorni di consumi mondiali).
Ieri un ulteriore spunto per ricoperture è arrivato dall’ondata di freddo che si annuncia in diverse aree d’Europa e sulla costa orientale degli Stati Uniti, che potrebbe risvegliare la domanda di combustibili da riscaldamento. Il petrolio ha quindi accelerato il rialzo, con uno scatto amplificato dalla forte presenza di fondi algoritmici, che trasmettono ordini di acquisto sulla base di segnali tecnici e della tendenza sottostante. Ma all’origine di tutto ci sono pur sempre solo dei pretesti.
Se fino all’anno scorso il mercato rispondeva in modo abbastanza coerente alla situazione reale – un enorme surplus di petrolio creato dall’estenuante braccio di ferro tra Opec e shale oil – ora sono in molti a parlare di «irrazionalità». Tra questi ci sono analisti autorevoli e anche il presidente di Saudi Aramco, Kalidh al-Falih: «I prezzi – ha dichiarato a Davos – dovrebbero essere definiti dal costo del barile marginale E questo è certamente molto più alto di 30 dollari».
Anche se il mondo rischia tuttora di «affogare nel petrolio», come ha avvertito l’Agenzia internazionale per l’energia, il momento della svolta potrebbe comunque essere vicino. Parecchi esperti sostengono che il prezzo del barile, oggi esposto a un’estrema volatilità, dovrebbe avviare una solida ripresa nella seconda metà dell’anno: per quell’epoca la sofferenza dei produttori non Opec si sarà infatti tradotta in una forte – e dunque visibile – riduzione dell’offerta.
Ieri Schlumberger, la più grande società di servizi petroliferi al mondo, ha annunciato altri 10mila licenziamenti, che – sommati a ben 24mila già fatti negli ultimi mesi – porteranno la sua forza lavoro a ridursi del 26% rispetto a novembre 2014. La società, che ha perso un miliardo di dollari lo scorso trimestre, ha spiegato che i clienti soprattutto in Nord America le «stanno comunicando la cancellazione di attività in modo improvviso e non programmato». Secondo Schlumberger la «crisi finanziaria sempre più profonda nell’industria» non lascia prevedere una ripresa delle perforazioni almeno fino al 2017.
A peggiorare le cose è intervenuta Moody’s, mettendo sotto osservazione per un possibile downgrading entro fine marzo ben 120 compagnie petrolifere e 55 minerarie di tutto il mondo. Nel mirino ci sono anche molti big, come Shell, Bp, Total ed Eni. Vi figurano anche Gazprom, Rosneft e, per quanto riguarda altre materie prime, il big americano dell’alluminio Alcoa e le minerarie Rio Tinto, Vale e Barrick Gold.
«Vediamo un forte rischio che i prezzi nel medio termine recuperino molto più lentamente di quanto le compagnie si aspettino», osserva Moody’s, che ha tagliato le previsioni sul petrolio nel 2016 ad appena 33 dollari al barile, sia per il Brent che per il Wti, con un rialzo a 38 $ nel 2017. «Anche in uno scenario di modesta ripresa dai prezzi attuali, le compagnie avranno flussi di cassa molto più bassi», aggiunge la società di rating, minacciando addirittura di abbassare di diversi “notch” il rating di alcuni produttori nordamericani.
I veri rischi non li corrono le Major, che hanno una valutazione tuttora elevata del credito, quanto i produttori vicini a scivolare nella categoria “spazzatura”, per i quali i canali di finanziamento si sono già quasi completamente chiusi.