La Stampa, 23 gennaio 2016
Un film di sei ore realizzato in sette anni, pieno di sogni, incubi ed escrementi. È River of fundament di Matthew Barney
Se volete scoprire l’esatto opposto del film di Checco Zalone andate a vedere River of Fundament l’ultima fatica cinematografica di Matthew Barney che sarà presentato per la prima volta in Italia a Bologna venerdì prossimo in occasione di Arte Fiera (ha già girato a New York, Londra, Basilea, Monaco e Adelaide). L’opera è stata commissionata a Barney dal Manchester International Festival. Per realizzarlo ci sono voluti sette anni. Durante i quali il fedele compositore e co-autore americano Jonathan Bepler ha composto la musica che è molto più di una semplice colonna sonora, è una narrazione in forma di suono parallela a quella delle immagini.
Dopo aver visitato lo studio dell’artista a Long Island City varie volte durante la lavorazione del film mi sono immolato nella sua visione ad Art Basel. Il film dura più di cinque ore e mezzo. Ammetto che nel corso della proiezione il sonno ha avuto la meglio su di me, anche se brevemente, almeno un paio di volte e una piccola ma impellente necessità fisica mi ha portato fuori dalla sala per qualche minuto. Credo che lo stesso artista preveda questo e mi perdoni.
La critica si è divisa. Chi lo ha definito un capolavoro, ed in linea di massima concordo, chi una vera schifezza. Si potrebbe dire che è un capolavoro con dentro molta schifezza. Sicuramente è un film che potrebbe piacere a chi costruisce auto. L’industria automobilistica e tre auto americane di diversi periodi fanno da protagoniste, anche se poi fanno una pessima fine. L’opera è ispirata a Ancient Evenings, un libro degli Anni 80, di Norman Mailer. Lo scrittore americano aveva già fatto la parte del mago Houdini in uno dei capitoli della prima saga di Barney, quel Cremaster che lo ha reso famoso e trasformato in una specie di guru e mito nel mondo dell’arte.
L’estenuante lunghezza e la devastante lentezza di questo film sono forse l’antidoto che Barney ha deciso di inventarsi per curarsi dalla fulminante velocità del suo successo arrivato a soli 23 anni. Alla fine degli Anni 90 il New York Times gli dedicò la copertina del suo Magazine e il critico Michale Kimmelman lo definì l’artista americano più influente del ventesimo secolo. Definizione sicuramente vera anche se oggi messa in ombra da un mercato dell’arte così selvaggio che guarda alla poca commerciabilità dell’arte di Barney con sospetto e quasi sdegno.
Matthew Barney è sicuramente una pietra angolare della storia dell’arte contemporanea e anche questo film pur con tutta la sofferenza che richiederà dal pubblico è un opera impossibile non solo da dimenticare ma da prendere sottogamba definendola frettolosamente eccentrica. Comunque perdete ogni speranza di capirci qualcosa, o voi che entrate. La simbologia del racconto è estremamente complicata. Inoltre bisogna aver lo stomaco buono. In molte parti del film è come se tutte le scatolette di Merda d’artista di Piero Manzoni esplodessero contemporaneamente allagando tutto. Le feci sono il collante del racconto. Il punto di partenza è l’antico Egitto sul quale è basato il romanzo di Mailer che nel film, impersonato da tre attori diversi essendo l’originale morto, è costretto da Barney a reincarnarsi per ben tre volte in tre corpi differenti. Questo sarebbe nulla se la reincarnazione non comportasse uscire ogni volta da un fiume di cacca.
Il film inizia con una veglia funebre in onore dello scrittore americano nella sua casa di Brookyln, ricostruita meticolosamente dall’artista e trasportata da una chiatta sulle acque che circondano Manhattan. Alla veglia, assieme a tante figure del mondo intellettuale newyorchese, c’è pure Salman Rushdie. Parallelamente al viaggio di Mailer nell’oltretomba c’è anche un viaggio nell’industria automobilistica americana con tre auto che fanno da attrici. La prima è una Chrysler Crown Imperial del 1967 che viene fatta a pezzi in un concessionario di Los Angeles da una mostruosa macchina sfasciacarrozze. La seconda è una Pontiac Firebird Trans Am che viene fusa in tre gigantesche fornaci a Detroit. Questa parte del film è forse la più spettacolare anche se pur sempre incomprensibile. A un certo punto fra una colata di metallo incandescente e l’altra appare lo stesso Barney, in uno dei tanti ruoli che interpreta, indossando un cilindro nero e un abito d’oro, costume tradizionale del defunto artista James Lee Byars, nativo di Detroit e ossessionato dal trasformare, come Re Mida, tutto in oro, senza particolare successo e forse per questo ispirazione del giovane Matthew. L’ultima protagonista è una Ford Crown Victoria del 2001, la macchina della polizia famosa per gli inseguimenti nei film di azione. La povera vettura affoga sul pontile dell’East River a Brooklyn. Riassumere River of Fundament in poche parole è praticamente impossibile. Matthew Barney chiede allo spettatore totale devozione, seguendolo e abbandonandosi alle sue visioni, incubi e masturbazioni mentali sperando di uscire vivi dalla proiezione o magari semplicemente svegli. Nel film c’è l’estenuante megalomane mitologia di un Wagner contemporaneo e il fallimento e la redenzione dei Miserabili di Victor Hugo. Ma appare anche l’America del West assieme a quella di Altman o la versione splatter e violenta di Tarantino. River of Fundament ha un fascino molto più profondo dell’inutile grandiosità di un film come Revenant che dura meno della metà ma che dovrebbe durare ancora meno per evitare di farci ridere. Mailer voleva forse essere Hemingway e infatti alla fine del film appare un coro di sosia di Hemingway. Chi vorrebbe essere Matthew Barney? Esclusivamente Matthew Barney, e questo lo rende una figura imperscrutabile, ossessiva ma essenziale nella storia dell’arte degli ultimi venti anni. Come gli inglesi a Waterloo Matthew Barney sembra urlare agli spettatori «Arrendetevi !» ma noi come il famoso generale di Napoleone, Pierre Cambronne, rispondiamo, assolutamente in tono con il film, «Merde!».