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 2016  gennaio 22 Venerdì calendario

Nelle case degli emigrati libanesi che sono tornati dopo aver fatto fortuna (e la sfoggiano). Nel villaggio di Miziare se ne trovano a forma d’aereo, di tempio greco o costruite copiando le tombe dei Faraoni

Nigeria Avenue, 51. Le carte d’imbarco, prego. Per entrare nella casa a forma di Boeing si ruota una grande maniglia e si fa scorrere un portellone d’acciaio bombato, come quelli delle uscite d’emergenza. Si sale una scaletta e manca solo la hostess che dà il benvenuto: una fila d’oblò fa filtrare il sole, la cabina di pilotaggio è un salotto con stereo e divani. In business ci hanno messo il tavolo da pranzo, in economy lo studiolo. La cucina sta sulla coda. Le terrazze sulle ali. Al piano di sopra, first class, le camere da letto e i bagni. «Quando il mio amico Michel Sleiman tornò a Miziara da Sydney, dov’era emigrato bambino, mi disse che aveva via dei soldi», racconta l’architetto del paese, Michel Antonios: «A cinquant’anni, voleva costruirsi una casa per le vacanze. Mi spiegò che il suo sogno era sempre stato di fare il pilota e di vivere in un aereo. Allora gli dissi: te lo faccio io, un aereo. Uno vero. Sul tetto della casa di tuo padre. Chiamai mio fratello Samir, che lavorava alla Middle East Airlines, e gli chiesi tutta la documentazione dei 747. Mai fatta una fatica del genere. Ho dovuto studiare la resistenza dei quattro piloni su cui si reggono le ruote, rinforzati per il vento, e progettare un’intercapedine per le coperture in acciaio. Ho ridotto le dimensioni, perché il terreno era troppo piccolo. Sleiman pagava a rate, ci ho messo dodici anni. Ma alla fine, eccolo…». L’aereo più pazzo del mondo a forma di casa, o la casa da pazzi bianca-nera-blu a forma d’aereo, domina le vallate di Zgharta e sta in fondo alle stradine che Miziara ha dedicato alla Nigeria, al Brasile, all’Australia e a tutte le terre lontane dove si va a far fortuna. Da quassù, certi giorni si vedono il mare e Tripoli. L’architetto è fiero: «Non è bellissimo? Per me è un simbolo di questo posto. Di tutto il popolo libanese, che fin dai tempi dei Fenici se ne va per il mondo. Un monumento ai primi migranti della storia».
CASA FOLLE CASA. Ho visto nomadi felici. O un po’ meno infelici. Nel Libano che da solo ospita più siriani dell’intera Europa, a due passi dal più infernale degli esodi, c’è un tranquillo villaggio cristiano dove ognuno degli ottomila abitanti è un emigrato. Un mohejer. E dove andarsene, nostra condizione di nomadi del terzo millennio, è da una vita la cosa più normale d’ogni vita: il 99 per cento degli adulti nati a Miziara è un expat. In Sudamerica, in Africa, in Oceania. Da quasi centocinquant’anni si va, si sta, si torna. E la questione d’aiutarli a casa loro, Salvini si tranquillizzi, non si pone nemmeno. A Miziara, i mohejer s’aiutano benissimo da soli. E di case, fatti i soldi, se ne fanno quante ne vogliono: stile Jumbo jet, modello tempio greco, ispirazione villa toscana rinascimentale, di gusto buddista o scintoista, simili a barche sospese sul fiume… Senza badare a spese. E badando semmai ai sogni e alle memorie, alle felicità avute e ai lutti sopportati, insomma all’album dell’esistenza: al 13 della Rotary International Street c’è l’emigrato Raymond Chagoury, 53 anni, tecnico petrolifero che di ritorno dalla Nigeria ha perso un figlio in un incidente e ha scelto di costruirsi il buen retiro copiando le tombe dei Faraoni. «M’hanno dato del matto», racconta mentre ci mostra l’elegante profilo di Nefertiti che adorna la camera da letto, il campetto da basket sul retro col pavimento ripreso da Giza: «Io ammiro le Piramidi, sono l’opera perfetta. E siccome volevo ricordare mio figlio come la perfezione assoluta, all’architetto Antonios ne ho chiesta una». Fresca d’estate e calda d’inverno, garantisce. Tutta in marmo italiano di Botticino. Lunga, larga e alta nella stessa metratura. Divisa su tre piani, con finestrelle a feritoia che non annullino troppo l’effetto tombale, e con una cisterna per l’acqua sulla punta. Un luogo dell’anima un po’ lugubre… «È piaciuta così tanto che me ne hanno già chieste due uguali», dice Antonios. «Venga dentro», ci fa accomodare: «È un’abitazione come tutte le altre. Ma diversa da tutte le altre. Spesso mi domandano perché a Miziara abbiamo questa mania di costruire cose originali. Io lo chiamo un esibizionismo positivo. Far vedere che nella vita s’è faticato e combinato qualcosa. Abitare in un posto che celebri una storia personale. Non lo facevano anche in Europa, secoli fa, quando s’inventavano le ville neoclassiche o le bizzarrie barocche? Noi siamo arrivati a farlo adesso».
ORO ET LAVORO. Certe migrazioni mediterranee non hanno nulla del Mare Monstrum che ingoia i poveracci a Lampedusa o nell’Egeo. E la gente di Miziara somiglia ai sardi, ai siciliani, ai greci: sono quattro generazioni che le case stanno lì a dimostrare chi ce l’ha fatta. I libanesi nel mondo sono venti milioni, quattro volte i libanesi che vivono in Libano: sette milioni solo in Brasile (i libano-brasileiros), tre negli Usa, 250mila in Africa. Una diaspora per necessità, siriani ante litteram che infatti una volta venivano confusi coi damasceni e chiamati tutti, invariabilmente, «i turchi»: minoranze per lo più cristiane scappate dalle persecuzioni ottomane nell’Ottocento, dalle scorribande coloniali nei primi del Novecento, dalle guerre civili di fine secolo. Non è mai stato facile essere cristiani, qui: nel 2012 venne anche papa Ratzinger a implorare i pochi rimasti a non mollare, «non assaggiate il miele amaro dell’emigrazione». Facile dirlo: nel 1957, a Miziara ci fu un massacro nella chiesa. Un anticipo della guerra civile: questo è sempre stato un feudo dei Franjieh, i falangisti maroniti che negli anni Settanta s’alleavano con Assad padre e oggi controllano uno dei partiti cristiani di Beirut. Di quella strage, a Miziara non si parla quasi più. Ma nessuno l’ha dimenticata. E fu allora che molti se ne andarono.
Oro et lavoro, casa e chiesa, flessibili e resilienti: secondo l’Onu, i libanesi nel mondo sono i migranti col reddito medio più alto. Mercanti e diamanti. Ristoratori e finanzieri. Professionisti e creativi. Nel 2001, tre giorni dopo la caduta dei talebani a Kabul, la prima trattoria che ospitò i giornalisti fu d’un libanese. Si tramandano nomi che han fatto fortuna: sono figli della diaspora libanese l’uomo più ricco del mondo, il messicano Carlos Slim, e il fondatore della Swatch (Nick Hayek) o Carlos Ghosn (Renault e Nissan), lo sono molti diplomatici e militari inviati dai presidenti americani nel caos mediorientale (George Mitchell prediletto da Reagan, Philip Habib scelto da Obama, il generale John Abizaid che gestì il dopoguerra in Iraq), lo sono celeb come Salma Hayek, Shakira, Paul Anka. Per legge, questi emigrati di vecchia data hanno perso il diritto al ritorno. E molti nemmeno parlano più l‘arabo. Ma tutti si sentono libanesissimi: un bel po’ di premi Nobel, cinque presidenti d’Ecuador, Colombia e Santo Domingo, un premier della Giamaica… Fu un emigrato anche Khalil Gibran, il poeta Profeta, che veniva da un villaggio vicino alla casa aeroplano («Nel ricordo non vi sono lontananze/ e nell’oblio c’è un abisso/ che né la voce, né l’occhio/ potranno mai accorciare»).
«In paese abbiamo molti milionari e un paio di miliardari», s’inorgoglisce Adam Wehebe, 33 anni, proprietario dell’unico albergo e pure lui nato in Nigeria. Gli eccentrici revenant di Miziara si sentono il piccolo simbolo d’una grande epopea. E il desiderio di somigliare a qualcuno s’incarna in Gilbert Ramez Chagoury, 70 anni, cognome uguale al proprietario della casa-piramide, indicato dalla rivista Ventures Africa come l’ottavo uomo più ricco del continente nero: la famiglia era di qui, lui ha sposato una di qui, ora a Lagos e nel Benin amministra il Chagoury Group (costruzioni, turismo, sanità, patrimonio da 4,2 miliardi di dollari), è stato un chiacchierato amico dei dittatori nigeriani e ha fatto perfino il diplomatico vaticano, mentre finanziava i Clinton, allestiva gallerie del Louvre che portano il suo nome e assumeva i conterranei di Miziara che cercavano fortuna africana. «Dall’anno scorso offro una settimana di soggiorno ai nostri emigrati di seconda o terza generazione», sogna l’albergatore Adam, «un’idea per riportarli a trovare le loro radici. Certo, potesse tornare anche monsieur Chagoury…».
CHI FA DA SÈ FA PER TRE. Bene, stanno bene. E assieme alle case spettacolari, ostentano volentieri le tre Mercedes a famiglia e le super Bmw. A Miziara fin dalle elementari s’insegnano quattro lingue, perché i bambini devono prepararsi ad andarsene. E lo stemma del municipio è un disegno di due rondini che volano altrove. E Western Union è l’ufficio più importante. Che ci pensino i siriani, a fare i lavori che qui nessuno fa più: i miziarani se ne vanno dove sono pagati meglio, la vita costa meno, il mercato non è così piccolo, dove non ci sia una guerra con Israele e le primavere di libertà non finiscano subito, dove non saltino le autobombe e gli Hezbollah sciiti non minaccino e le bandiere nere dell’Isis non sventolino a pochi chilometri. A Miziara, anche il sindaco è un migrante: «La mia famiglia è appena rientrata», spiega Maroun Dina, 42 anni, cristiano maronita, «ma io faccio sempre il tecnico nei cantieri di Lagos. Sono stato eletto via email: 2.200 voti, tutta gente che vive all’estero come me. Ogni due settimane mi sobbarco cinque ore di volo, riunisco il consiglio comunale per decidere le strade da asfaltare e la spazzatura da smaltire, poi riparto». Le due settimane in cui non c’è, provvede il suo vice Pierre Daboul, uno che ha vissuto diciassette anni in Benin e s’è appena fatto una bella casetta a pagoda per la pensione: «Il governo di Beirut non ci dà quasi nulla», spiega, «noi finanziamo le spese comunali con le rimesse degli emigrati. È tutto il Libano che funziona così: il 30 per cento del prodotto interno lordo si regge sui soldi mandati dall’estero».
la partenza è nel dna. Al caffè Abi Nasr, sulla piazza, è appesa una foto seppiata anni Quaranta. «È il Nonno di tutti», spiega un vecchio seduto ai tavoli, Joseph Wakim: «Lo chiamavamo proprio così, il Nonno. Il primo vero sindaco di Miziara. Il nome vero era Elias Rofina. Era sempre a questo tavolo, proprio come me adesso. Amministrava il paese, risolveva le liti, consegnava la posta degli emigrati. Quand’ero in Nigeria, era lui a darmi notizie della famiglia…». Wakim, 80 anni, per quarantotto è stato fuori. E ora è la memoria visibile dei migranti, altro che i Boeing o le piramidi: «Quando me ne andai io, a Miziara c’erano solo due auto. In aeroporto s’andava in corriera. O sul carretto». Coi risparmi d’una vita, Wakim s’è costruito una casa normale: «Non mi piacciono le stranezze…». Un figlio è andato in America, uno in Francia, uno a Dubai. Non torneranno: «Fanno bene. Là si guadagna dieci volte meglio che qui». Perché un libanese è come il cedro, dice: «È richiesto. È ben pagato. E mette radici ovunque».