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 2016  gennaio 22 Venerdì calendario

Perché gli onorevoli non pubblicano le loro dichiarazioni dei redditi?

La casa di vetro ha le pareti opache. Presentata come la medicina che avrebbe portato il controllo pubblico sugli eletti e reso le istituzioni un edificio in cui tutto è sempre visibile, l’operazione trasparenza sembra essersi arenata sulla soglia del Palazzo. Perché se è vero che qualche passo avanti è stato compiuto negli ultimi anni, di strada ne manca ancora tanta. A leggere il dossier dell’associazione Openpolis dedicato ai patrimoni dei politici, che “l’Espresso” presenta in anteprima, si direbbe infatti che chi ci rappresenta è restìo a dare notizie sul proprio conto.
Dal 1982 la legge obbliga i titolari di incarichi elettivi a rendere pubblica la situazione patrimoniale: redditi, beni mobili e immobili, partecipazioni societarie, azioni, oltre a contributi e spese sostenute per la propaganda. Nel 2013 l’ultimo atto del governo Monti (ribattezzato decreto Trasparenza, nemmeno a farlo apposta) ha esteso questa previsione anche ai parenti fino al secondo grado, pure se con la scappatoia di lasciarla facoltativa. Il risultato però è tutt’altro che entusiasmante: fra governo e Parlamento il 72,3 per cento dei politici rende noto solo il minimo sindacale o presenta una documentazione parziale, un quinto circa fornisce informazioni complete e solo poco più del 6 per cento divulga dati aggiuntivi come i redditi o le proprietà del coniuge.
Accade così che fra i tantissimi bocciati ci siano perfino la seconda e la terza carica dello Stato, Piero Grasso e Laura Boldrini, l’astro nascente del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio, il presidente del Pd Matteo Orfini, il ministro Maria Anna Madia (che pure ambisce a riformare la Pubblica amministrazione), il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, che contravvenendo alla legge non ha nemmeno allegato il rendiconto della campagna elettorale. E se i dieci senatori passati con Raffaele Fitto riescono nell’impresa di non aver depositato nemmeno una dichiarazione dei redditi completa, neppure i Cinque stelle, che hanno fatto della trasparenza una bandiera e sono i più diligenti, brillano: i promossi sono meno della metà (vedi tabella).
PREMIER PRIMO, GOVERNO MENO
A Matteo Renzi va riconosciuto il merito della trasparenza assoluta, avendo messo a disposizione la situazione patrimoniale e reddituale dell’intera famiglia: moglie, figli, genitori, fratello, sorelle, perfino le nonne. Openpolis promuove a pieni voti anche i ministri Padoan, Pinotti, Delrio, Galletti e Poletti, mentre per qualcuno è stato necessario entrare nel governo per ravvedersi (ed evitare la bocciatura). Angelino Alfano, ad esempio, pubblica per intero il suo modello Unico solo sul sito del Viminale ma non su quello della Camera. Idem per i ministri Boschi, Giannini, Lorenzin e Orlando, mentre Paolo Gentiloni ha reso pubblici i redditi della moglie solo quando è arrivato alla Farnesina. Una disparità di comportamento che mostra quanto i politici vivano la trasparenza come un atto dovuto: aumenta quando si sale il cursus honorum, anziché prescindere dall’incarico ricoperto. Non a caso le dichiarazioni dei membri del governo sono le più complete. Le informazioni relative ai familiari, ad esempio, sfiorano il 40 per cento per l’esecutivo, più del doppio che nelle Camere.
Tuttavia c’è pure chi resta estremamente vago. Il sottosegretario Borletti Buitoni indica il possesso di generici “fabbricati” sparsi fra Milano, l’Argentario e Londra senza specificare altro. I ministri Madia e Lorenzin (che la scorsa legislatura, prima che diventasse obbligatorio, non autorizzarono il caricamento della loro documentazione online) rendono noto solo il quadro Rn, ovvero quello riepilogativo del 730.
PARLAMENTO OPACO
Il caso dei parlamentari è cruciale: la legge prevede che entro tre mesi sia depositata nella Camera di elezione copia dell’ultima dichiarazione dei redditi, ma dispone che sia pubblicata unicamente la parte riassuntiva. Solo che in questo modo non è possibile evincere la natura dei proventi o l’esistenza di altre fonti di guadagno. Così chi tiene a essere davvero trasparente deve sottoscrivere un’apposita liberatoria, autorizzandone la diffusione integrale e chiedendo in caso anche la divulgazione di informazioni supplementari. Davvero poche mosche bianche lo fanno: grosso modo appena un eletto su quattro. Ma se vengono consegnate per intero agli uffici del Parlamento, perché non renderle accessibili anche ai cittadini? Proprio per questa circostanza Openpolis ha considerato come parziali tutte le dichiarazioni che contengono solo la parte riepilogativa, bocciando chi si è limitato al minimo sindacale. Vedi i parlamentari prima citati. O Boldrini e Grasso, che pubblicano solo i prospetti di liquidazione, l’elaborazione sintetica consegnata ai contribuenti che si rivolgono a un Caf o affini.
A ogni modo chi vuole restare nell’oscurità assoluta non ha nulla da temere. Nel 2014 il senatore Luigi Marino di Area popolare si è rifiutato di consegnare la documentazione perché l’anno precedente, dopo essere finito sui giornali come parlamentare bolognese più ricco (794 mila euro), alcuni compaesani avevano iniziato a insultarlo. Nei suoi confronti, tranne una censura formale, non è scattata però alcuna sanzione: la legge non ne prevede. Allo stesso modo anche chi le norme le rispetta può mantenere riservata l’origine delle proprie fortune. Nel 2014 dieci parlamentari hanno guadagnato oltre un milione di euro (vedi tabella qui sopra) ma è impossibile saperne di più: nessuno dei Paperoni ha dato l’assenso a pubblicare la dichiarazione dei redditi per intero.
POVERA CAMPAGNA ELETTORALE
Openpolis ha ricostruito anche i finanziamenti relativi alle ultime elezioni. Assai spartane, a giudicare dalle cifre. Nel complesso i contributi privati dichiarati ammontano ad appena tre milioni, più della metà (1,7 milioni) andati a 131 parlamentari del Partito democratico. Se i piddini vincono in termini assoluti, i sostenitori più generosi sono stati però quelli di Scelta civica: sette onorevoli hanno raccolto 264 mila euro. In pratica è come se ognuno avesse ricevuto un assegno da 38 mila euro. Si tratta di cifre che però vanno prese con le molle: un terzo degli eletti non ha depositato il rendiconto elettorale (contravvenendo alla legge) e, fra chi lo ha fatto, quasi una metà ha asserito di non aver sostenuto spese né ricevuto contributi. Di fatto solo il 28 per cento degli onorevoli avrebbe avuto un aiuto economico da privati.
Con 263 mila euro racimolati, l’ex tesoriere Ds Ugo Sposetti si è rivelato un asso pigliatutto. Fra i finanziatori, una società di brokeraggio del gruppo Gavio (50 mila euro), la Federazione dei tabaccai (38 mila) e nomi noti come la Milano 90 del costruttore Scarpellini o Cpl Concordia, la coop modenese coinvolta nell’inchiesta sulle presunte tangenti per la metanizzazione dell’isola d’Ischia (10 mila euro a testa). Secondo si è piazzato Enrico Letta con 116 mila euro, 35 mila dei quali ricevuti dall’imprenditore Francesco Merloni. Per essere rieletto l’ex ministro La Russa ha invece messo 79 mila euro di tasca propria.
I POLTRONISSIMI
Dulcis in fundo, i collezionisti di ruoli societari. Fra governo e Parlamento, calcola il dossier, la carica di consigliere di amministrazione ricorre 74 volte, quella di presidente 64 e 52 quella di amministratore (unico o delegato). Con queste premesse non è raro trovare degli autentici recordman. L’imprenditore nautico Paolo Vitelli di Scelta civica è arrivato ad accumulare la bellezza di 23 poltrone contemporaneamente, per lo più facenti capo al gruppo Azimut Benetti di sua proprietà. Dopo essersi dimesso, lo scorso settembre, lo scettro è passato nelle mani di Gregorio Gitti, pure lui eletto con Monti ma tornato poi al Pd renziano: genero del patron di Intesa Giovanni Bazoli, è presidente di varie finanziarie del gruppo Ubi che si occupano di intermediazioni finanziarie e cartolarizzazioni. Oltre a sedere, fra i tanti, nei cda di Librerie Feltrinelli, Skirà editore, in quello di una società metalmeccanica, una di prodotti da illuminazione e un’altra attiva nella ristorazione. Senza contare il lavoro da deputato, un impegno tale da richiedere quasi l’ubiquità.